i miei racconti

di Franca Caluzzi

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Al pascolo ci andavo l’estate quando tornavo al mio paese.

 

Al pascolo

   Per andare a pascolare le mucche io e la mia amica Marta ci portavamo il metro da sarta.
   Serviva per misurarci il girovita. Giocavamo a chi aveva il vitino da vespa più sottile. Io tenevo il fiato quando mi misuravo col metro. Ma forse anche la mia amica Marta lo faceva  e così, se baravamo, baravamo in due.
   Avevamo un bastone ciascuna per far rigare dritto le mucche, la Bigia, la Mora, la Bianchina, perché se andavano nei campi di erba medica, della quale erano golosissime, potevano scoppiare.
    Questa raccomandazione, di stare ben attente perché potevano scoppiare, ce l’aveva inculcata in testa lo zio Bruno, una specie di vichingo alto e biondo che sorrideva sempre quando ci sorprendeva a misurarci il girovita col metro. E una volta avevamo potuto constatare che era la pura verità. Beppe, più piccolo di noi, aveva portato al pascolo l’unica bestia che la sua famiglia possedeva e se l’era dimenticata nel campo di erba medica fresca e tenera fino a farla scoppiare. Era arrivato il veterinario ma non ci aveva potuto fare niente.
    Una tragedia.
    Noi ci stavamo attente, salvo quando ci pettinavamo e io invidiavo la mia amica Marta che aveva i capelli lunghi ed era bionda come lo zio Bruno. Oppure quando ci raccontavamo i segreti. Le mucche erano golose comunque, non solo dell’erba medica. Una volta la Bigia si è mangiata la mia merenda e un’altra volta la Bianchina ha cominciato a ruminare il mio foulard. Di seta. Bello. Me lo mettevo sui capelli quando il sole picchiava forte. Quella volta la Bianchina mi aveva fatto piangere.
   Le mucche non erano mie, e nemmeno della mia amica Marta che abitava a Milano e non poteva di certo tenersele là, ma di suo zio Bruno, il vichingo. Le portavamo, erano più tante che tre ma i nomi delle altre non li ricordo, nei campi sopra il fiume Secchiello e per arrivarci facevamo, noi e le mucche, una discesa di sassi ripidissima.
   Un’altra raccomandazione, oltre a quelle dell’erba medica e di portarle all’abbeveratoio al ritorno, era di non avvicinare mai le mani alle sbarre della stalla dove, anche di giorno, rimaneva prigioniero il toro. Per il resto ci lasciavano libere, anche quando andavamo al campo vicino alla stalla e oltre alle mucche ci affidavano le bestie più giovani e un bambino, Gianni, molto più piccolo di noi. Il campo era circondato da una schiera di alberi e il bambino si sedeva tranquillo al centro del prato mentre le mucche se ne stavano a ruminare all’ombra degli alberi.
    Ma una volta era successo che due manzetti si erano messi a correre e si erano fermati uno di qua e uno di là dal bambino. Avevano alzato le zampe anteriori e si sfidavano giocando a incornarsi. Gianni era sotto, proprio sotto alle zampe davanti dei manzetti. Io e la mia amica Marta ci eravamo precipitate a trascinarlo via, a metterlo in salvo, ma che non ci fossimo rese conto della gravità del pericolo lo dimostra il fatto che neppure avevamo raccontato la cosa alla mamma. Mucche, manzi e bambino in braccio avevamo ripreso allegramente la via di casa.