Ho imparato una cosa. A fare le corse si fa meno fatica se sono in salita. Più ripide sono e meglio è. A parte gli eletti, i primi, i primissimi, che corrono dal principio alla fine, gli altri si arrendono e camminano come me. E così, alla fine, i distacchi sono meno paurosi che nelle corse in pianura.
Alpicella - Beigua
29 agosto 1999
"Guarda, ci sono due marocchini!"
"Quattro: tre del Kenia e uno della Tanzania, del Marocco nemmeno uno"
Le figure sottili, scure e lucide di olio escono dai calzoncini sgambati in acetato, la canottiera traforata e colorata, le scarpe Nike, Adidas, Mizuno che Gianni invidia. Gli guardo i piedi: "Ma non sono come le tue?" Tutta la folla che ci circonda è abbigliata così e saltella sulle punte, si lancia in brevissime corse e torna indietro.
"Vedi quella ragazza? Si chiama Ferrara e forse va alle Olimpiadi".
Io non la conosco e sono l'unica a non saltellare, se salto la cellulite va su e giù e non è bella a vedersi, i miei sessanta chili di peso per centosessantacinque di altezza nella maglietta bianca e bermuda blu in cotone pesante, da palestra.
"Qualche donna della mia età la vedi?"
"Nessuna"
Allargo il cordoncino in vita e tiro con le mani il tessuto. Penso che mi sentirei meglio se avessi i pantaloni da ciclista, senza fondello, aderenti e lunghi al ginocchio, non questi cosi informi e larghissimi. Spio tra la folla in cerca di compagnia. Nessuna, come me, si è fatta convincere a fare di corsa, si fa per dire, dieci chilometri e seicento metri di salita pazzesca. Tutte giovani e belle le donne presenti. Allenate. Saltellano, i capelli raccolti, le gambe slanciate nei calzoncini sgambati.
Noi siamo qui perchè a Vara abbiamo il Beigua sopra la testa e questa marcia ci arriva in vetta, anche se dall'altra parte, quella del mare. E poi perché Gianni corre. Io no, non corro mai. Per il momento mi sento solo ridicola; figuriamoci dopo, quando arriverò in cima, se ci arriverò, con un ritardo mostruoso. E' una gara importante se ci sono i marocchini, anzi i keniani.
Ci mettiamo davanti, subito dopo il Gran Prix che è il gruppo di quelli che corrono forte; preferisco stare qui per partire tra i primi, così per qualche minuto, fino a quando anche l'ultimo mi avrà superata, non mi sentirò il fanalino di coda. Dopo correrò in solitudine. Fa quasi freddo, anche se è agosto, e in alto c'è la nebbia.
"Preparati, si va".
Smetto di pensare e guardo l'uomo con la pistola. Uno sparo. "Pum". Oltre duecento persone si mettono a correre, volano. Pazzi, con una salita così. 10,6 chilometri! La virgola è importante. Se non ci fosse sarebbero seicento metri di meno che sono quelli che fanno soffrire più degli altri diecimila.
Tento di correre, un minuto, due minuti, la salita è talmente ripida che mi mozza il respiro. Raggiungo il magistrato Sossi, mi dicono che è un fedelissimo. "E' più produttivo marciare con queste pendenze" dice "la progressione è simile". Mi metto a marciare, veloce, più veloce che posso. Gianni invece corre, i talloni sollevati da terra, e anche se non va forte è parecchio avanti.
Con la marcia il fiato mi torna e il cuore corre in modo meno selvaggio di prima. A fianco a me sfilano uno dopo l'altro tutti i concorrenti che ancora stavano dietro. Se la pendenza cala provo a correre di nuovo controllando l'orologio per vedere quanti minuti ci metto. Otto minuti per fare un chilometro.
Primo, secondo, terzo … al quinto chilometro entro nella nebbia. E' il cappuccio del Beigua, un cappuccio grosso e alto almeno quattrocento metri che mi avvolge e cancella di colpo l'estate, se un poco ne era rimasta ad Alpicella. Marcio veloce in questa ovatta che sbiadisce le immagini e anche i suoni finchè un'auto dell'organizzazione mi dà la posizione. Si ferma, mi supera, tante volte, e ogni volta un incoraggiamento. Probabilmente è quella che chiude la marcia, furgone-scopa viene chiamata, e raccoglie i caduti, se ce ne sono. A giudicare dalla attenzioni sarò l'ultima concorrente.
Sono all'ottavo chilometro e non ho più intenzione di mollare, se mai l'ho avuta. Pioviggina e ho avuto l'infelice idea di raccogliere la spugna zuppa d'acqua che al ristoro avevano preparato immaginando una giornata di sole. L'ho strizzata sul petto e sulla schiena perché così credevo si dovesse fare e ho anche messo una fettina di limone tra i denti. L'acqua della spugna, tanta, più quella che sta cadendo dal cielo, si ferma sui calzoni di cotone e non c'è bisogno di tirarli per farli arrivare al ginocchio. Pesano tanto che vanno anche più giù e mi impicciano in questa marcia che vorrebbe essere una corsa. Altro che acetato, lucido e leggero, zavorra sono diventati. Dalla solita auto arriva un "Coraggio, ormai ci siamo, Una medaglia è sua". Hanno voglia di scherzare.
Sono arrivata agli ultimi seicento metri, quelli che dicevo prima, e per terra ci sono le scritte che ti dicono di preciso quanto devi ancora soffrire, 500, 400… Ogni cento metri un'eternità. C'è nebbia e piove ma vedo già gente in prossimità dell'arrivo e qualcuno che torna, ancora correndo. 100 metri, gli ultimi … Gianni sorride, la sua fatica l'ha conclusa da un pezzo. Imbocco di corsa il corridoio tra le transenne mentre il megafono annuncia il mio arrivo. I giudici di gara raccolgono il numero che con tre spilli da balia ho fissato alla vita, controllano e annunciano: "ore una e ventisei minuti, prima di categoria".
Rimango di sasso. Prima! Chi l'avrebbe mai detto? Quando c'è la premiazione e mi presento al palco, fradicia, la maglietta e i capelli incollati, mentre gli altri, fatta la doccia, hanno tute asciutte, colorate e firmate, capisco. Prima e anche unica. Merito dell'età. Rigiro la medaglia d'oro fra le mani, guardo i keniani e i tanti italiani che per mettere meno della metà del mio tempo si allenano anche due volte al giorno e mica tutti hanno la medaglia d'oro, anzi sono pochi.
Sono felice. |