i miei racconti

di Franca Caluzzi

HOME PAGE

Calizzo, 15 dicembre 1944
Giulio, anni 7

La neve era alta e gli uomini avevano fatto il passo con la pala.
Io giocavo a fare il giro del paese correndo tra la neve e quando sono passato davanti a casa mia mi è venuto in mente in mente di entrare.
Dentro c’era una nuvola calda e così spessa che si faticava a vedere. Però ho visto lo stesso che c’erano delle donne e un cesto enorme. Nuovo. Mi aveva colpito il fatto che fosse nuovo.
Nel cesto c’era un fagottino rosa e intorno tanti panni bianchi.
Io non ho saputo cosa pensare e siccome avevo ancora la mano sul chiavistello ho richiuso la porta di colpo e sono scappato fuori. Che quel fagottino rosa fosse mia sorella l’ho saputo dopo.

 

Calizzo di Villa Minozzo

 

     Sono nata lì, poco prima del Natale 1944, in una cucina surriscaldata dai ceppi che mio padre faceva ingoiare al caminetto. Una catena pendeva dall'alto e attaccato alla catena c'era un paiolo con l'acqua che bolliva. Mia mamma, di quei momenti, ricordava quel grande caldo. Fuori c'era la neve e calma e silenzio. Tanta neve che sul sentiero per Tapignola, dove il giorno dopo sono stata battezzata, il mio padrino sprofondava e mi teneva alta perché non mi bagnassi, seguito da mio fratello, sette anni, che non capiva perché mai fossi arrivata a disturbare i suoi giochi. Erano gli anni più belli della sua infanzia. Con tutta quella neve la guerra sembrava lontana, eppure su questi monti si combatteva ancora. Bisognava aspettare aprile perché la pace arrivasse davvero.

Calizzo (frazione di Villaminozzo) – la borgata di centro dalla strada “nuova”

     Queste cose mi sono state raccontate ma qualche anno più tardi tante immagini hanno cominciato ad affollare la mia memoria e ora tornano tutte insieme a ricordarmi quelle estati felici.
     Abitavo in città, in una strada dove enormi palazzi tutti uguali sembravano prendersi per mano sulle sponde del torrente Bisagno. Erano le case popolari che a Genova cominciavano a portare il cemento nelle periferie. Quando finivano le scuole partivamo, la mamma, mio fratello, io e anche i cugini. Rimaneva solo mio papà. Ricordo le valigie, legate per sicurezza con delle vecchie cinghie da pantaloni. Ricordo il tram, e mia madre che chiedeva lo sconto al bigliettaio che voleva far pagare il viaggio ad ogni pacco, e il treno e il caldo soffocante di Reggio Emilia e la carrozza a cavalli e la corriera. Ricordo che lasciavamo la pianura e salivamo verso i monti e quando arrivavamo a Villaminozzo l'aria diventava frizzante e la strada asfaltata finiva. Dopo ne iniziava una bianca di ghiaia e di polvere che gli stradini si affannavano a tenere in ordine perché la ghiaia schizzava sui lati e si formavano i solchi. Con la pala la rimettevano al centro e la pareggiavano perché fosse ben liscia. In piazza, aspettavamo pazientemente l'ultima corriera che ci avrebbe portati a Calizzo. Valigie e bambini eravamo saliti e scesi un numero infinito di volte mentre mia mamma si affannava a contarci. Io avevo l'autorizzazione a stare davanti, in piedi vicino all'autista, perché "pativo". Così vedevo per prima i campi gialli di grano, Case Zobbi e il Cusna con i canaloni ancora innevati. Mi sembrava un sogno, un mondo fantastico dal quale non avrei più voluto uscire.
     La mia casa non aveva i servizi, ma nemmeno quelle degli altri, non c'era neppure l'acqua in casa e la fontanella e il trogolo sarebbero stati costruiti molti anni dopo. C'era una sorgente, nel fosso, e l'acqua la prendevamo lì, due secchi per volta che noi bambini – anche io appena cresciuta un po' – portavamo appesi ad un lungo e grosso bastone, liscio e tondo, che tenevamo in bilico sulla spalla, attenti a non rovesciarne nemmeno un po'.
     Ho nella mente le immagini ma anche gli odori e i sapori e sento ancora in bocca quell'acqua freschissima quando sudata e affannata per i giochi attingevo con un mestolo di alluminio dal fondo piatto nel secchio "da bere" in ferro zincato, sotto al lavandino, dietro una tendina a quadretti bianchi e rossi. Per lavare i piatti invece l'acqua usciva dal rubinetto perché mio papà, che era ingegnoso, aveva ricavato nel muro della cucina, profondo chissà quanto, un capace serbatoio che riempivamo, attraverso una lunga fessura, versandoci i secchi. I panni grandi poi si lavavano al fosso, le mamme inginocchiate sulle pietre, prima che costruissero il grande trogolo diviso in tre scomparti, uno piccolo per l'acqua corrente, un altro che il sapone intorbidava con la sciacquatura e un altro ancora per far bere le mucche.

La mia famiglia e le mie amiche sul prato di Calizzo

     Le mucche! Ogni famiglia di Calizzo le aveva e io accompagnavo la mia amica Marta al pascolo. Lei abitava a Milano ma d'estate era lì dove aveva gli zii che coltivavano e curavano le bestie. Le conoscevo per nome, Bianchina, Bigia, Mora, e le inseguivo col bastone perché non andassero a brucare nei campi di erba medica. Ci dicevano che con l'erba fresca sarebbero gonfiate fino a scoppiare. Io mi portavo una bella merenda per la metà del pomeriggio e la Bigia una volta se l'è mangiata: due fette di pane con una "nutella" d'eccezione, burro e rosso d'uovo sbattuti a crema, zucchero e cacao. Partivamo noi due se i pascoli erano vicini, o sul barroccio con gli zii se i campi erano lontani. Il barroccio partiva vuoto e tornava carico di fieno. Noi ci sedevamo sul pianale con le gambe penzoloni che sfioravano il terreno e guardavamo la strada che scivolava tra i piedi. Il ritorno, se il fieno era tanto, ce lo facevamo a piedi insieme alle mucche. Mio fratello invece, che era più grande, poteva stare appollaiato lassù come sull'albero di una nave e ogni sobbalzo lo faceva ondeggiare. Lo invidiavo.
     Ma il barroccio non serviva solo per trasportarci insieme al fieno. La sera, sotto le stelle, adagiato con le sue due grosse ruote e la lunga stanga sul prato vicino all'aia, era il giaciglio di noi bambine che, occhi in su, ammiravamo il cielo farsi sempre più buio e brillante e sognavamo. Prima, finché c'era luce, aiutavamo le donne a sfogliare le pannocchie di granturco e con le foglie riempivamo poi i materassi, oppure toglievamo la buccia ai vimini che crescevano sulle rive del fosso. Staccavamo le foglioline tenere fino a scoprire il biancore di questi bastoncini elastici che servivano, intrecciati, a fare i cestini. Alti cumuli verdi si ammucchiavano sull'aia e noi ci coricavamo sopra. Come erano morbidi!
     Ricordo quando arrivava la trebbiatrice, un'enorme bestia con pulegge e cinghie che sembrava costruita col meccano. Arrivava fin lì dalla pianura e cominciavamo ad aspettarla tanto tempo prima e ogni giorno ci rispondevano: "domani". Ingoiava le spighe e ne uscivano i chicchi da una parte e la paglia dall'altra, grandi balle rettangolari pressate e legate. Tutti lavorano e seguivano come in processione la macchina che veniva spostata da un podere all'altro. Era una festa che durava tanti giorni e il rumore e il vociare e la polvere si intrecciavano a formare uno spettacolo unico. Avevamo la paglia fra i capelli e mescolata al sudore delle spalle, ma nessuno ci toglieva di lì. Un gioco affascinante che si ripeteva tutti gli anni.
     Davanti a casa mia c'era l'oratorio dedicato a San Francesco. Ma per andare a Messa, la domenica mattina, si partiva, donne uomini e bambini coi vestiti della festa, per il ripido sentiero che sale alla chiesa di Tapignola. La mia amica Marta abitava dietro l'oratorio. Ogni casa, di pietra, era attaccata ad un'altra. Sopra c'era il fienile e una lunga scala per arrivarci, a fianco c'era la stalla e il toro chiuso dentro. Guai a mettere le mani vicino alle sbarre. Davanti c'era l'aia e dopo l'aia un bel prato. Il fuoco era sempre acceso e i muri neri di fumo. Con uno stretto e basso passaggio ci si ritrovava a fianco dell'oratorio e la casa vi era attaccata di lato e di dietro. Ogni zio aveva un pezzetto di quella casa ma più avanti ne era stata costruita una nuova e bella con una grande stalla e un bel fienile, proprio sopra la strada bianca di ghiaia, la strada "nuova", e lei era andata ad abitare lì.
     Al sabato facevano il pane, lunghe file di pagnotte tonde e croccanti unite fra di loro. Noi bambini correvamo per mangiarlo caldo e ci scottavamo le dita. Veniva conservato, fasciato nella tela dentro le cassapanche, per una settimana. Intanto, nella cenere ancora calda mettevano le mele e ne uscivano incipriate, con la buccia raggrinzita e la polpa morbida e squisita. Quanti buoni sapori! Anche quello del prosciutto crudo preparato dagli zii, spesse fette rosa pallido con un gusto che mai più ho ritrovato. E la panna che raccoglievamo col cucchiaio e stendevamo sul pane, spolverata di zucchero. Era tutto buono quello che si faceva in quella casa.

Mio papà sulla Ducati 60

     Mio papà arrivava d'agosto, con la moto. Una Ducati 60, sessanta sta per cilindrata, che lo aveva accompagnato perfino a Mestre. Ma anche arrivare a Calizzo non era uno scherzo, duecento chilometri di curve e i passi del Bracco e del Cerreto da superare. Le sue ferie duravano poco, la ditta lo mandava sempre a chiamare. Lavorava anche lì, perché aveva le mani d'oro e anche un cuore d'oro. Lo cercavano tutti. Remo dov'è? A Villa veramente lo chiamavano Tonino, perché lì era nato e cresciuto e Tonino era il suo soprannome. Da un calzolaio aveva imparato a fare le scarpe ma a Genova era diventato idraulico e lavorava negli impianti di riscaldamento.
     Non camminavo volentieri, il piacere di andare per monti lo avrei scoperto più tardi. Ma sul Cusna, il re dell'Appennino, tutti si saliva. Partivamo da Calizzo, ci arrampicavamo su per Tapignola e Santonio, e poi Coriano e Monte Orsaro e ancora, lungo il crinale, fino alla vetta. Ritornavo stremata come dopo un lungo pellegrinaggio. Mai avrei immaginato che molti anni dopo, ormai mamma, avrei portato mio figlio a scorrazzare su e giù per questi monti, Cusna, Prado, Abetina Reale, rifugio Cesare Battisti, lago di Bargetana, Passone, Alpe di Vallestrina, tante volte da conoscerne ogni sentiero.
     Questo è il mio paese.