Ho conosciuto un contrabbandiere. Sulla Mer de Glace. Eravamo in tre e ci ha portato a perdere.
Il contrabbandiere
La Mer de Glace
Era il 1967 e avevo ventidue anni. Da qualche tempo mi ero iscritta al CAI e mi ero innamorata della montagna. Avevo fatto un corso di roccia dove c'erano istruttori che aprivano vie nuove e facevano ripetizioni di grandi classiche. Io ne ero affascinata. Ogni tanto invitavano noi allievi a qualche facile arrampicata ma quella volta non ci avevano voluto e sarebbero saliti da soli sul Grépon, nel gruppo del Bianco.
Per fare una traversata della Mer de Glace ci avevano affidate ad un ragazzo che si trovava al rifugio. Sembrava così contento di farci compagnia. Eravamo arrivati il giorno prima, dalla val Veni dove eravamo accampati in tenda, attraverso il traforo del Monte Bianco che da pochi anni univa la vallata di Courmayeur a quella di Chamonix, e col trenino a cremagliera ci eravamo arrampicati fino all'inizio del ghiacciaio. Tre ragazze e due giovani. Nel rifugio non c'era posto e ci avevano sistemati in una costruzione vicina, una camerata e qualche stanzetta, appena sopra le lingue terminali del ghiacciaio, verdastre e sporche di sabbia.
I nostri due amici erano partiti a notte ancora fonda. Li avremmo rivisti solo la mattina del giorno successivo, costretti ad un bivacco imprevisto che ci aveva fatto restare in ansia tutta la notte temendo il peggio. Ma questa è un'altra storia.
Era presto e avevamo cercato di dormire ancora un po' ma alle sette, puntuali, eravamo pronte per la partenza. Avevamo bussato alla porta della nostra guida ma non aveva risposto. Era passato un bel po' prima di vederlo risalire, con le spalle curve, le rocce sotto di noi. Era sceso a Chamonix, nella notte, ed era tornato a piedi perché il trenino entrava in servizio più tardi. Aveva una gran fretta. "Siete pronte?" Certo, eravamo pronte. Avevo provato a sollevare il suo zaino che aveva posato un attimo a terra. Era tanto pesante che non c'ero riuscita. "Andiamo" ci aveva ordinato.
Faticavamo a stargli dietro, eppure eravamo ben allenate. Salivamo sulle rocce e avevamo il ghiacciaio sulla nostra sinistra. La breve sponda morenica che li collegava stava diventando più alta e più ripida. Avevo notato i segni che indicavano di svoltare e avevo cercato di dirglielo ma lui non rispondeva e continuava a salire, facendoci fretta col braccio. Era un bel po' più in alto di noi e cercavamo solo di individuarne la figura per capire il percorso.
Erano passate forse due ore e il ghiacciaio non lo vedevamo più. I passaggi sulle rocce cominciavano a farsi difficili e ci sarebbe voluta una corda. Dove ci stava portando?
Noi eravamo sgranate lungo il percorso e arrancavamo cercando di non perdere di vista chi stava davanti. Non avevamo ancora perso del tutto la fiducia in quel tizio che sembrava così esperto. Forse la meta della nostra gita era diversa, forse si trattava di un itinerario più interessante. Non volevamo irritarlo.
Correva, lo avevo perso di vista. Poi avevo sentito un fischio, forte e lungo: era per noi? Ma almeno era servito a farmi capire la direzione. Il percorso passava in una grotta, alta e spaziosa. Stavo cercando di individuare l'uscita quando avevo notato uno zaino per terra. La nostra guida si era fermata subito fuori. Il sacco che portava in spalla sembrava leggero. Non aveva più fretta. Aveva ammesso che sì, forse si era sbagliato. Gli dispiaceva tanto averci rovinato la giornata. Non avremmo fatto in tempo a tornare sui nostri passi e prendere la direzione giusta. Tanto valeva fare ritorno al rifugio. "Io scendo, seguitemi". Un attimo dopo era sparito.
Eravamo rimaste lì, tre ragazze, sole, slegate, col rischio di dover affrontare passaggi insidiosi. Una di noi si era fatta prendere dal panico e non voleva più proseguire. Senza accorgercene, scendendo, ci eravamo avvicinate alla scarpata morenica e ad un tratto avevamo rivisto il ghiacciaio, bianco e luccicante, e laggiù alcuni puntini che si muovevano, una cordata. Noi eravamo in alto, separate da quella superficie piana ed invitante da un muro altissimo, quasi verticale, fatto di pietre minute che franavano. Un piede lì e saremmo precipitate.
Avevamo gridato con quanto fiato avevamo e solo dopo tanto ci era sembrato di sentire un grido in risposta. I puntini laggiù si erano divisi. Qualcuno stava salendo. Avevamo il cuore in gola e una di noi piangeva. Le guide ci avevano raggiunto e ci avevano chiesto come diavolo avessimo fatto a ritrovarci in quel posto assurdo e pericoloso.
"C'era un ragazzo che ci guidava"
"Dove l'avete incontrato?"
"Al rifugio"
"E voi seguite gli sconosciuti?"
No, noi non seguivamo gli sconosciuti. Eravamo state affidate a lui dai nostri amici che avevano paura a lasciarci andare da sole. Eppure una traversata della Mer de Glace è facile facile: basta una corda, ramponi, piccozza e un po' di attenzione. Mica si può precipitare in tre in un crepaccio.
Ci avevano legato e con estrema cautela ci avevano fatto scendere fino a toccare la neve. Che sollievo! La corda era però solo un aiuto morale: quale sicurezza era possibile fare su quel terreno franoso? Dopo una breve ramanzina ci avevano autorizzato a raggiungere da sole il rifugio. Ma ormai era facile.
Un contrabbandiere, ecco cos'era. Aveva bisogno di noi per una copertura. I finanzieri non avrebbero sospettato di un gruppetto con tre ragazze. Ecco perché era così ansioso di farci da guida. Ma dopo la grotta non servivamo più e ci aveva abbandonate. Ancora adesso mi chiedo cosa ci sarà stato in quello zaino tanto pesante. |