i miei racconti

di Franca Caluzzi

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A cinquant’anni suonati andavo in bici da corsa. Perché non vieni a Pavia con me? mi aveva chiesto mio figlio

 

In bicicletta da Genova a Pavia

Giugno 1996

     Tutto è cominciato con una domanda di mio figlio. "Domani vado a Pavia, vuoi venire?"
     "A Pavia?"
     "Se non ce la fai ti fermi prima. Lasciamo la macchina a Casella."
     Mio marito salta in piedi e grida "Siete matti, la mamma non ce la fa, in pianura si muore …". Alla televisione stanno dicendo che domani arriverà un'ondata eccezionale di caldo insieme a un alto tasso di umidità. Seguono i consigli degli esperti che suggeriscono cosa fare per sopportare meglio la prima grande afa della stagione.
     Alla mattina sistemiamo una bicicletta dentro l'auto e l'altra sul tetto e partiamo, accompagnati dalla disapprovazione di mio marito.      Quando vado in bicicletta Stefano diventa protettivo, mi fa un mucchio di raccomandazioni, pretende che stia a "a ruota", pochi centimetri tra la sua posteriore e la mia davanti per proteggermi dal vento e farmi fare meno fatica. Mi chiede continuamente "ce la fai?" e controlla piegando appena la testa se sono lì, dietro a lui. Ho dimenticato il berretto ma tanto non lo metto mai. Ho una barretta al cioccolato e la borraccia con l'acqua.
     E' presto, pedalo senza fatica, mani sui freni, occhi fissi sulla figura davanti. Devo stare attenta, se tocco la ruota cado. "Abbiamo passato Ronco, tra poco c'è Isola, poi Arquata. Te la senti?".  Stiamo andando da sud a nord, alle nostre spalle l'arco dell'Appennino protegge a semicerchio la Liguria. A Isola del Cantone l'abbandoniamo ed entriamo nel basso Piemonte, dove le colline scemano ad incontrare la grande pianura. Attraversiamo Serravalle. Case, incroci, persone catturano la mia attenzione. E' caldo, vorrei un berretto ma l'ho dimenticato. Pazienza.
     "Vedi laggiù? E' Tortona. Tra un po' vediamo la Madonnina d'oro". L'ho vista tante volte, da lontano, passando in autostrada, perché luccica. Penso, forse Pavia non è tanto distante. La cartina geografica è a casa e non l'ho neppure guardata. Come sono ignorante!
     Mi fa un po' male il collo bassa come sono con le mani sui freni. Gli occhi sono incollati alla ruota davanti, la strada scorre sotto di me e percepisco appena il paesaggio che scivola sulla mia destra e sulla mia sinistra. Campi coltivati che disegnano grandi quadrati verdi, gialli, un'infinità di sfumature, come le coperte di lana fatte a mano con tanti tasselli colorati, e dove cambia colore lunghe file di pioppi. "Stiamo andando verso nord-est. La prossima città è Voghera" Stefano si volta a ogni istante per vedere se sono lì, dietro di lui. "Come va?" "Bene" "Dopo Voghera puntiamo di nuovo a nord, attraversiamo il Po e siamo a Pavia".
     La pianura è tutta uguale, solo i cavalcavia interrompono la monotonia della pedalata: cambio rapporto, ma per pochi metri. Il Piemonte è dietro di noi, siamo in Lombardia. Penso che la prossima volta potrei arrivare a Milano. Mi sembra di poter continuare per sempre così. Anche se ho caldo, ho caldo solo io?
     I chilometri continuano a scorrere sul computerino, nelle salite della Liguria girano più lenti. Siamo alle porte di Pavia. Una strada dritta, come da noi non siamo abituati a vedere, e una lunga fila di case sui due lati, tutte uguali. Non sono alte come i nostri palazzi, tre piani forse. "Adesso ci fermiamo e mangiamo qualcosa, poi ci conviene tornare".
     Appena mi fermo e appoggio la bicicletta al muro del bar comincio a sudare, la maglietta mi si appiccica addosso. E' passato mezzogiorno e sono contenta di essere qui. A Pavia ci sono arrivata.
     Improvvisamente mi viene sete, non riesco a smettere di bere. Stefano mi fa fretta. Quando usciamo dal bar l'aria è rovente, il sole a picco sopra di noi. L'ombra è raccolta intorno ai nostri piedi, piccola, tozza, non si allunga slanciata come questa mattina. Nemmeno i tetti colorano di grigio il marciapiede, la porta del bar segna il confine tra l'ombra e la luce accecante. Il tubo della bicicletta scotta, non lo posso toccare. Se penso a quanta strada devo percorrere ancora sto male.
     Non ho più forza nelle gambe e se non sto a ruota è peggio. Quando quell'elastico invisibile che unisce le bici si rompe, la velocità scende di colpo e la distanza fra noi aumenta ogni istante. Stefano rallenta. Vorrei fermarmi. L'ombra in questa afosa giornata di giugno è scomparsa. Penso che se mi rompessero un uovo sulla testa, come si fa sulla padella, potrebbe cuocere. L'albume non scivolerebbe giù fra i capelli per arrivarmi sugli occhi ma si raggrumerebbe e diventerebbe bianco, mentre il tuorlo rimarrebbe lì, al centro, caldo e liquido.
     Come vorrei un berretto!
     Stefano fa il gesto di togliersi il suo. "No, tienilo tu". E' quasi rapato, si è tagliato i capelli con la macchinetta. Mi verso poche gocce d'acqua in testa e tra la maglietta e la schiena. E' calda. La devo tenere per bere, non posso sprecarla. Dove la trovo una fontana?
     Abbiamo passato Voghera ma Genova mi sembra ancora all'altro capo del mondo. Ci troviamo in un forno, tutta la pianura è un grande forno e io sono incosciente, lo sono sempre stata. Ci penso mentre sento le gambe afflosciarsi e le ruote diventare pesanti come macine di pietra. Stefano si volta continuamente e mi parla, mi scuote dal torpore, mi incoraggia, ma solo quando mi informa "Siamo alla stazione di Pontecurone" ho un soprassalto. Se c'è una stazione ci sono i treni, tornerò col treno e Stefano proseguirà in bicicletta.
     Perché mio figlio si preoccupa così? A casa comanda: "fai questo, fai quell'altro". Forse pensa che non sono capace ad arrangiarmi? Vuole accompagnarmi in stazione, controllare se sul treno accettano le biciclette. "Come stai?". All'ombra della biglietteria mi sento rinascere.
     In quella piccola stazione suscito un po' di curiosità: "Da dove viene? Da Genova?". Non hanno carrozze bagagli ma fa lo stesso, non hanno nemmeno i biglietti per le biciclette, così la mia viaggia gratis. Salgo insieme al macchinista, mi fa sedere nell'ampia cabina. Mi offre da bere, chiacchieriamo. Anche lui andava in bicicletta, faceva anche diecimila chilometri l'anno. "E lei?" "Così pochi?" " Ma io faccio sempre salite, a Genova pianura non ce n'è" "Bé, allora è un'altra cosa", ma è scettico e pensa che i chilometri sono chilometri e i miei sono troppo pochi. Per questo sto tornando col treno.
     A Tortona e anche a Novi devo cambiare carrozza e qui un altro ferroviere, gentile, mi chiede "E' suo figlio?" e indica un ragazzo in bicicletta che si sbraccia per mandarmi un saluto.