i miei racconti

di Franca Caluzzi

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FRABOSA, gennaio 1968
Prima uscita del corso di sci-alpinismo. Discesa fuori pista dalla Malanotte. Che nome infame! Prendo velocità e mi inciampo in una radice affiorante (lo scopro molto tempo dopo). Mi rompo il femore. Mi portano a spalle coricata e legata come un salame ai miei sci. Gli altri cantano per farmi coraggio. Canto anch'io.

 

L’incidente

1968

     Mi piaceva la neve, la roccia, lo sci, l’escursionismo, lo sci alpinismo, tutto. Per me era avventura pura e con l’entusiasmo del neofita ogni fine settimana correvo a fare qualcosa. Ma non è detto che perché avevo una grande passione fossi anche brava, anzi ero proprio mediocre. Nello sci poi … Andavo con le pelli ogni tanto e mi ero iscritta ad un corso di sci-alpinismo. Era la prima uscita ed eravamo saliti alla Balma per poi scendere a Frabosa attraverso la Malanotte.
     Pratonevoso era appena nato e a me, che ricordavo il Prel che si raggiungeva da Monte Moro con una dolce passeggiata, non era proprio piaciuto. Era come se mi avessero rubato qualcosa, quei prati bianchi di neve non erano più immacolati ma sporchi di cemento. La cabinovia  della Malanotte ancora non esisteva e la discesa da Monte Moro a Frabosa era fuori pista.
     Era tanto che non nevicava e la neve era ghiacciata. I solchi lasciati in precedenza da altri sci, quando questa era morbida e fresca, erano profondi e luccicavano. Scendevamo facendo attenzione agli alberi e alle rocce che affioravano.
     Allora usavamo un unico paio di sci, per la pista e per lo sci-alpinismo. Davanti avevano un attacco piccolo, triangolare, il Marker, e dietro una molla che tirando bloccava il tacco dello scarpone, di cuoio e con le stringhe. Nella salita si faceva ruotare il Marker, si inserivano delle ganasce con un cinghietto che fissava lo scarpone, rigorosamente slacciato nella parte alta, e si liberava la molla posteriore affinché il piede potesse sollevarsi. Le pelli di foca, che di foca non erano più, si applicavano con sistemi strani, allora modernissimi, le colle non esistevano ancora. Nella discesa si bloccava il tutto e la sicurezza era data da quel triangolino che nella caduta avrebbe dovuto aprirsi e ruotare. Ma io penso che se anche avessi avuto gli attacchi di adesso, con la sicurezza posteriore oltre che anteriore, mi sarebbe successo lo stesso.
      Mi ero infilata in uno di quei solchi che ho detto prima, lucidi e duri  come vetro, gli sci correvano velocissimi e non riuscivo ad uscirne. Guardando avanti vedevo queste rotaie che scendevano e poi risalivano su un dosso e  avrei voluto  fermarmi lì. Ma al grido “attenta!” urlato da una compagna, dopo aver tentato un’improbabile frenata ero volata contro un albero.

      La prima impressione era stata di sorpresa. Guardavo gli sci e osservavo che erano paralleli l’uno con l’altro ma quello di  sinistra era girato dall’altra parte, la coda davanti e la punta dietro. Non sentivo male, era come se la mia gamba si fosse rotta con la fragilità di un grissino e la frattura era poco sopra al ginocchio. Credo di ricordare i sentimenti di quegli istanti. Non avevo avuto paura. Dopo la sorpresa era sopraggiunto un sentimento nuovo, inatteso, il compiacimento per un avvenimento interessante che non mi era mai capitato. Sarei andata all’ospedale. Non ci ero mai stata, chissà come era. E poi mi sarebbero venuti a trovare tutti, improvvisamente ero diventata importante. A mia discolpa devo dire che fino allora io non avevo conosciuto la malattia, né il dolore e la mia incoscienza e ignoranza delle cose era assoluta. Circondata dall’attenzione di tutti i miei compagni e dalla preoccupazione degli istruttori che avevano la responsabilità di portarmi a valle, mi sentivo quasi un’eroina.
      I telefonini non c’erano e gli elicotteri non si muovevano con la facilità di adesso.Con i miei sci avevano costruito una barella e mi avevano sistemato sopra, le gambe ben legate. In quattro, dandosi il cambio, mi portavano giù in spalla. Erano le tre del pomeriggio e per arrivare a Frabosa impiegarono quattro ore. Scendendo i miei compagni cantavano, per farmi coraggio, ed erano quei cori di montagna che ancora adesso sono la mia musica preferita, e cantavo anche io, a voce alta, io che stonata come sono ho sempre fatto finta, muovendo solo le labbra. Scherzi dell’adrenalina.

     Poi il gesso, l'immobilità, la lunga riabilitazione. E le lettere. Già perché allora si usava scrivere e questi fogli, conservati gelosamente, sono rimasti. Arrivavano all'Ospedale Galliera, reparto 21, letto 16. Cartoline delle mie colleghe, una vignetta umoristica ritagliata dal Secolo dal mio principale, lettere di quello che poi è diventato mio marito, allora soldato. E l'amicizia di tutti quelli che mi venivano a trovare e mi portavano anche fuori, attrezzando l'auto come se avessero dovuto trasportare un mobile.
     Piccole, grandi conquiste. Dentro la grande armatura che mi immobilizzava ero riuscita ad arrivare fino alla Chiesa e sentire Messa, una volta. Un'impresa titanica. Anche se il parroco, che mi vedeva andare in montagna indossando i pantaloni e giudicava questo abbigliamento gravemente offensivo per la morale, prima di mettermi l'ostia tra le labbra mi aveva sussurrato che era il giusto castigo divino. Con l'armatura ridotta, dalle ascelle al ginocchio, andavo anche a lavorare, accompagnata dall'autista della ditta, e rimanevo in piedi perché non mi potevo sedere, appena appoggiata alla scrivania.
     Bei tempi, non sto scherzando. Anche se ho ridimensionato i miei progetti e il Cervino e il Bianco, il Corno Stella e la Dufour sono rimasti sogni nel cassetto.
     Credo sia stato merito dell'incidente se ho sposato mio marito. Già, perché la mia beata incoscienza lo aveva attirato, lui che del male ha un sacro terrore. La legge dei contrari. E poi la sosta forzata mi ha permesso di conoscerlo e di innamorarmi.
     Quando si dice il caso, o il destino, come si preferisce!