i miei racconti

di Franca Caluzzi

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I ghiacciai in quegli anni erano più grandi di quelli di adesso. Erano un mondo incantato dove regnava la magia.

 

La mia gita più bella

 

25-26-27 marzo 1967

     Credo che ognuno di noi abbia nel cuore una gita a cui, senza sapere nemmeno il perché, ha dato il nome "la più bella". Per me è l'Adamello, quando il ghiacciaio era tanto grande e io così piccola che non ne vedevo i confini. Bianco, immenso e accecante.
     Eravamo un piccolo gruppetto in cerca di avventura. Passo del Tonale, funivia del Passo Paradiso, discesa al rifugio Mandrone. Per il primo giorno bastava. Nello zaino avevo dovuto mettere tante cose, piccozza, ramponi, cordino e moschettoni, pelli di foca, sci e viveri per tre giorni. Avevo comprato un chilo di carne a fettine, ci avevo steso su il prosciutto, le avevo arrotolate e fatte arrosto, un chilo di involtini divisi in piccoli pacchetti. Ai formaggini Mio avevo tolto le scatole perché pesavano, magari pochi grammi ma tanto bastava. Gli sci erano infilati dietro le tasche dello zaino Cassin, che non erano cucite ma attaccate con delle cinghiette. Una volta pronto lo zaino pesava tanto che per metterlo in spalla avevo dovuto farmi aiutare.
 
Marzo 1967: verso l’Adamello

     Al Passo Paradiso, degli skilift per lo sci estivo erano rimaste solo le ruote. I piloni sprofondavano nella neve per intero. La traversata con le pelli verso la Capanna Presena la ricordo come in un sogno, avrei potuto annegare in tutta quella neve. Ma poi ...
     Poi ricordo tutto benissimo. "Ci vogliono i ramponi" aveva urlato il capo. La pendenza per scendere verso il rifugio Mandrone era troppa per gli sci.
     Metterli i ramponi! Togliere gli sci e piantarli verticali, sfilare lo zaino e tirare fuori quegli aggeggi con le punte, farli aderire alle suole, stringere le cinghiette, riprendere gli sci e sistemarli, rimettere lo zaino in spalla e stringere la piccozza. Quando ci hanno urlato di metterli per me era ormai troppo tardi. Troppo ripido, troppo tutto. Non ci sarei mai riuscita, avevo preferito tenere gli sci ai piedi. In due non ce l'avevamo fatta e in due eravamo cadute rotolando più volte lungo il ripido pendio. Ci eravamo fermate in fondo. La mia compagna, più sfortunata, si era storta la caviglia, io avevo rotto un attacco. Poi, bene o male, dopo aver legato l'una con una benda e l'altro con un pezzo di spago, avevamo raggiunto il rifugio Mandrone. Infermieri e meccanici, italiani e tedeschi, si erano prodigati nelle cure. Quello che ancora adesso non riesco a capire era il mio sconfinato ottimismo. C'era sempre qualcuno che risolveva i problemi per me.
     La mattina dopo il tempo prometteva di essere splendido. Era ancora buio e le stelle brillavano sull'immensa distesa immacolata. Le mani mi facevano male dentro i guanti imbottiti. Era il giorno di Pasqua. A ranghi ridotti visto che la caviglia della mia compagna non si era potuta aggiustare come il mio sci avevamo cominciato a risalire il ghiacciaio. Mentre il cielo schiariva e arrivava il sole scivolavamo dolcemente con le pelli e superavamo pendii dolci e brevi tratti più ripidi. Sempre così, con il sole abbagliante, su quei giganteschi gradini che non finivano mai. Ricordo la Lobbia Alta sulla nostra sinistra e le rocce che affioravano dalla neve, tanta che ubriacava. Pensavo: dopo questa salita c'è la vetta, ma dopo la salita c'era un altro pianoro e poi un'altra salita e un altro pianoro e la vetta non arrivava mai.
     Mi era apparsa dopo otto ore di salita e mi era sembrata un sogno. Usciva dal ghiacciaio come un fungo, nero e bianco, ma più nero che bianco perché la neve non rimane appiccicata alle rocce ripide. Avevamo tolto gli sci, staccate e arrotolate le pelli, li avevamo piantati in piedi insieme ai bastoncini. Ci eravamo legati i ramponi e anche quella volta avevo sbagliato e avevo messo il lato esterno all'interno e avevo dovuto ricominciare daccapo. Avevo infilato la mano nel laccio della piccozza e dopo un po' di arrampicata su misto, i ramponi scricchiolavano sulle rocce, ci eravamo ritrovati a stringerci la mano su pochi centimetri di roccia. Adamello. Tanta fatica per salirci e tanta fretta per scendere. Non so nemmeno se alla vetta ho dedicato un pensiero.
     La discesa con gli sci era stata una danza. La neve primaverile perfetta, le nostre tracce sulla distesa vergine un disegno fantastico. Una musica. Un sogno. Tanto bella e veloce che mi ero svegliata solo quando avevo rivisto il Mandrone. Avrei voluto poter continuare. Lo scialpinismo è fatto così. Ore di fatica per salire e conquistarsi una sola discesa. Sempre troppo breve, da godere per intero perché irripetibile.
     Due giorni erano passati. La Pasqua sull'Adamello aveva lasciato il posto al lunedì dell'Angelo. Eravamo sulla via del ritorno, le pelli di nuovo sotto gli sci, anche della mia compagna con la caviglia bendata. Ero stanca. Tanto stanca che avevo cercato di stare davanti perché se fossi rimasta dietro avrei perso il contatto con i compagni. Contavo fino a cento e mi fermavo a riprendere il fiato … poi fino a cinquanta … poi fino a venti … Ogni volta le soste duravano di più. Ogni volta mi superava qualcuno. Sempre così, venti passi per volta per tutta la salita verso la Capanna Presena. Ma poi, in cima, il fiato mi era tornato. Alla funivia mi avevano chiesto se volevo approfittarne per scendere comoda. Figuriamoci! "No, grazie". Volevo lasciare almeno lo zaino? No, nemmeno lo zaino sarebbe sceso in funivia. Avevo voluto tenerlo in spalla, con i ramponi legati in cima e la piccozza su un lato, perché tutti vedessero, tutti sapessero che ero salita sull'Adamello. Dovevo averlo scritto in fronte quanto ero felice. E mi ero concessa l'ultima discesa sciando tanto bene come mai, dopo, ho saputo più fare.