i miei racconti

di Franca Caluzzi

HOME PAGE

Questa avventura tanti anni fa ha fatto scalpore. Non prendetevela se ci sono delle imprecisioni. Sono i miei ricordi e sono scritti in stenografia. Decifrarli non è stato facile.

 

La Nord Est del Badile

Pizzo Badile - Domenica del Corriere del 16 gennaio 1968

Genova, gennaio 1968

     C'è un ricevimento alla Terrazza Martini. Si festeggiano Gogna, Calcagno e Armando che hanno da poco conquistato la Nord Est del Badile in prima invernale. Ci sono tanti invitati e la stampa che ha seguito con attenzione questa avventura.
     Io lavoro al ventesimo piano del grattacielo dalla ditta Costa che fa l'olio Dante e la Terrazza Martini è in cima, al trentesimo. Mentre salgo con l'ascensore dal ventesimo al trentesimo, con in mano un biglietto d'invito, mi sento orgogliosa. Come se un po' fosse anche per merito mio. Quando li vedo, Alessandro e Gianni, quasi non li riconosco, così eleganti in giacca e cravatta. Io un vestito di crèpe di lana rosso senza maniche, aderente, ma potrei avere la cappa azzurra dell'ufficio, tanto gli sguardi sono tutti per loro.
     Cercavano un "problema" da risolvere e lo hanno trovato nella nord est del Badile, in invernale. D'inverno non l'aveva mai fatta nessuno. Pierre Mazeaud ci aveva provato sei anni fa e aveva detto che è impossibile: una muraglia di novecento metri, in val Bregaglia, tra la Svizzera e l'Italia, che d'inverno diventa un impressionante scivolo di cristallo. Però non si doveva sapere quello che stavano preparando perché altri alpinisti, italiani o stranieri, potevano bruciargli l'idea. Doveva rimanere un segreto.
     Di quanta roba hanno avuto bisogno! Non si può trascurare niente, si deve prevedere tutto. Credo che in tanti li abbiano aiutati, preparare una cosa così non è uno scherzo. Nel mio piccolo ho dato qualcosa anche io, una piccozza Grivel che era di sessanta centimetri e avevo fatto accorciare a cinquanta. L'ha presa Alessandro. Serve solo sui muri di neve, altrimenti è corta, ha un manico in vetroresina, è robusta e leggera. Tutti alla "Ligure" abbiamo seguito i preparativi. Poi momento per momento abbiamo fatto il tifo per questa impresa straordinaria, iniziata il 21 di dicembre, primo giorno d'inverno, e terminata il 2 di gennaio. Dodici giorni di lotta.
     Il 20, quando sono arrivati a Bondo, erano in quattro, c'era anche Risso, un torinese. Lì hanno visto una macchina piena di roba e hanno pensato che qualcuno gli aveva rubato l'idea. Li hanno conosciuti il giorno dopo, Darbellay, Troillet e Bournissen, tre svizzeri, e invece di fare una gara si sono messi insieme. Il 23 si è ritirato Risso, non stava bene. Gli altri salgono metro per metro e attrezzano la parete, così la notte la fanno giù alla base. Ma il tempo diventa brutto e il 26 gli svizzeri abbandonano l'impresa. Rimangono solo i nostri che con 30 gradi sottozero continuano a salire. La notte del 27 invece di scendere alla base dormono in una piccola grotta che hanno scavato nel nevaio centrale. Gli svizzeri, che si sono pentiti, tornano e aiutati dalla corde fisse li raggiungono e ricominciano a lavorare insieme. Il primo di gennaio salgono tanto che la notte li sorprende in parete, non riescono a tornare alla grotta e bivaccano su un terrazzino di trenta centimetri, appesi ai chiodi, le gambe penzoloni nel vuoto, cercando di stare svegli per non congelare. Il giorno dopo raggiungono la cresta ma le difficoltà non sono finite e per arrivare in vetta ci sono altri tiri durissimi da superare.
     Poi la vittoria.
     Io lo dico così, come se fosse una cosa normale, ma è stata un'impresa ai limiti del possibile, pazzesca. Sono successe tante cose, Darbellay è volato e il suo compagno lo ha trattenuto. Anche Gianni è volato e lo ha tenuto Alessandro o Paolo Armando, non so. Darbellay ha un principio di congelamento. Nell'ultimo bivacco, poco sotto la vetta dentro una grotta scavata nella neve dell'altro versante, quando ormai la vittoria era in pugno, credo che abbiamo conosciuto la felicità. Per tutta la vita potranno dire "ho fatto la prima invernale della Nord Est del Badile". Hanno scritto una pagina nella storia dell'alpinismo.
     Noi alla sezione siamo stati in ansia tutto il tempo e quando ho saputo che c'erano riusciti ho pianto. Ho tutte le pagine dei giornali e la Domenica del Corriere che ha fatto un bel servizio. Li voglio tenere. Adesso siamo alla Terrazza Martini ma qualche giorno fa abbiamo fatto festa in sezione. Mi ero messa il vestito rosso che avevo appena comprato e avevo portato due bottiglie di champagne, vero champagne. Me lo aveva regalato a Natale il mio principale. "Per festeggiare con i suoi amici, se ce la faranno".
     Qualche giorno fa Alessandro mi ha restituito la piccozza e mi ha detto: "Hai rischiato di non vederla più. Mi è volata e l'ha presa lo svizzero". Se non l'afferrava Bournissen mentre gli passava davanti al naso otto metri sotto a quest'ora sarebbe ai piedi della parete, novecento metri più in basso. "Ho consumato un po' la becca, ci mancheranno due centimetri". La becca infatti si è accorciata e ora è rotonda. Con me queste cose non le sarebbero mai capitate.

Era la fine del '67 e l'inizio del '68. Poco dopo Paolo Armando se ne andava, in un incidente di montagna, e tanti anni dopo lo seguiva Gianni Calcagno, sul McKinley in Alaska. Dei tre festeggiati che ricordo lì su quella bella terrazza sotto la luce dei flash è rimasto Alessandro Gogna, scrittore, fotografo, storico della montagna.
Naturalmente lui non può ricordare me, anonima allieva di un corso di alpinismo, ma certo ricorderà il particolare della piccozza. Tutte le volte che entro nel box la vedo appesa alla parete, in compagnia di altre due che non sono state così fortunate.
Quando facciamo una gita io e mio marito prendiamo le altre perché sono più lunghe e non andiamo ad arrampicarci sui muri di neve. Ma quando siamo in tre, perché viene anche mio figlio, la sfilo dal gancio e la uso lo stesso, corta come è, con un sentimento di orgoglio e di nostalgia.