i miei racconti

di Franca Caluzzi

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Ero partita volontaria con il treno degli ammalati che andava a Lourdes ...

Lourdes

1964

    “Cosa ha messo in questa valigia?”
    “Le divise, le scarpe …” Avevo taciuto che ci avevo messo anche il ferro da stiro.
    Era almeno un mese che cucivo le divise da dama, quella ufficiale tutta Bianca e la visiera con la croce per attaccarci il velo in pelle d’uovo con l’orlo a giorno e quella da lavoro con la cuffietta, la cappa azzurra e il grembiule a pettorina bianco. E poi avevo comprato le scarpe e le calze bianche e un cardigan blu.
    Come avrei fatto senza il ferro da stiro?
    Il mio principale aveva sistemato la valigia sul treno e mi aveva indicato il posto. Da quel giorno ero ufficialmente una “dama”. I malati viaggiavano in altri compartimenti, quelli barellati e quelli con i sedili per chi poteva stare a seduto.
    Il primo compito che mi avevano affidato sul treno era quello della stazione radio. Per tutto il viaggio, lunghissimo, senza considerare il tratto alla frontiera che andava a carbone e affumicava tutto compreso la mia divisa nuova, dovevo dire al microfono, quando me lo chiedevano: “il signor tal dei tali è atteso nella carrozza numero, il dottor pinco pallino è pregato di recarsi alla carrozza barellata”.
    Gli altri dormivano. Seduti, con i piedi appoggiati ai sedili di fronte, o rannicchiati e coricati sul proprio sedile o sulla schiena del vicino.
    Si viaggiava anche di notte.
    Io avevo preso sul serio la mia incombenza e non mi ero addormentata neppure un istante, così che quando ero arrivata a Lourdes ero uno straccio.
    Tutti, ma proprio tutti tra dame e barellieri, erano più ricchi di me. L’UNITALSI vantava tradizioni nelle famiglie “in” di Genova, i Costa in prima linea. Infatti era stato il mio principale che era un Costa a dirmi “venga a Lourdes”. Quell’anno e anche gli altri due a venire. Poi, non ricordo perché, non c’ero più stata.
    Un modo per farmi sentire che non ero al loro livello era quello di ignorarmi. Parlavano come se io, che stavo in mezzo, fossi trasparente. Si conoscevano tutti ma nessuno sapeva chi ero. Però questa discriminazione era durata solo per il viaggio, a Lourdes era stata tutt’altra cosa. Lo spirito di servizio univa i ricchi e i poveri a favore dei malati che ricchi o poveri non si distinguevano, accomunati com’erano dalla malattia. Tutti, dame e barellieri, di qualunque estrazione sociale, a Lourdes sgobbavano come negri e la fatica, la fede che ci circondava, la speranza che gli ammalati riuscivano a trasmetterci, ci rendevano uguali fra noi e migliori di quello che eravamo prima.
    Sul treno mi avevano dato l’incarico della radio ma a Lourdes cosa mi avrebbero fatto fare?
    Primo: servizio in corsia. Secondo: capo albergo.
    Due cose molto diverse. L’orario in corsia cominciava la mattina prestissimo anche se non avevo idea di quello che avrei dovuto fare perché non sono infermiera. Capo albergo (il mio era tra i più economici visto che dal viaggio all’alloggio tutto era a mie spese) voleva dire ascoltare le eventuali lamentele, fare da tramite con il personale che, parlando in francese, capivo sì e no anche se il francese l’avevo studiato per ben otto anni, e alla fine raccogliere le mance e darle alle cameriere.
    Sul problema delle mance dirò qualcosa più avanti perché siè presentato alla fine, poco prima della partenza del treno.
    Mi alzavo prestissimo, mi vestivo con la divisa azzurra e la cuffietta in testa e andavo all’ospedale.
    Non essendo infermiera mi avevano dato un incarico molto particolare. Rifare i letti, di continuo perché di continuo si sporcavano, e buttare le lenzuola sporche nel locale predisposto per la lavanderia. Una suora francese mi aveva mostrato lo sgabuzzino, chiuso e con una grande feritoia in alto dove, alzandomi in punta di piedi, avrei dovuto cacciare le lenzuola sporche. A lato di questo sgabuzzino ce n’era un altro che la suora non mi aveva spiegato bene cosa servisse. Ad ogni modo mi aveva parlato in francese e io non avevo capito. Siccome ero diligente, ogni volta che cambiavo un letto raccoglievo le lenzuola, le ammucchiavo, mi mettevo davanti allo sgabuzzino in punta di piedi e le lasciavo cadere dall’altra parte.
    Ogni giorno così.
    Devo aggiungere però che una volta finito il servizio in ospedale potevo mettermi il velo in testa e la divisa ufficiale tutta bianca per portare alle funzioni in piazza qualche ammalato in carrozzina. A queste funzioni partecipava il mondo e la fede e la speranza che ci infondevano gli ammalati ripagava alla grande il sacrificio di un po’ di lavoro. Le preghiere che uscivano dagli altoparlanti, recitate nelle lingue di tutti di fedeli, facevano rabbrividire di commozione.
    Era tutto così bello, così coinvolgente e vicino alla fede, che ognuno di noi veniva investito dal desiderio di fare sempre meglio. Tutti, ricchi, poveri o malati. Il concentrato di tutto il mondo racchiuso a Lourdes.
    Tornando alle mie lenzuola per tutta la settimana di servizio le avevo cacciate nella feritoia dello sgabuzzino, decine e decine, lenzuola, federe, traverse, teli gommati. Lo sgabuzzino non era pieno semplicemente perché veniva svuotato ogni giorno. Ma alla fine della settimana era arrivata la suora francese. Gridava in francese che non avevo capito niente. Avevo solo capito che ce l’aveva con me. Mi aveva tirata per un braccio e mi aveva portata agli sgabuzzini. “Dove” gridava “dove ha cacciato le lenzuola?”.
    Questo l’avevo capito e le avevo indicato la grande feritoia dello sgabuzzino di sinistra. Si era messa le mani in testa e aveva continuato a gridare che quello era lo sgabuzzino dell’inceneritore. In-ci-né-ra-teur. Questa parola l’avevo capita bene anche se urlava perché si assomiglia all’italiano. Ma perché non me l’aveva detto all’inizio che lì ci andava la roba da bruciare? Perché non c’era uno straccio di cartello e i due sgabuzzini erano identici? Come facevo a saperlo?
    La faccenda delle mance è successa subito dopo, perché eravamo alla fine della settimana e dovevamo partire. Ero arrivata di corsa dopo il servizio e non avevo fatto in tempo a mangiare un boccone che mi toccava l’ultima incombenza. Quella di raccogliere le mance. Perché ero capo albergo. Raccogliere le mance non è cosa semplice, con tutte quelle monetine e il problema di dare il resto a chi mi dava franchi di carta. Però, alla fine, avevo raccolto un gruzzoletto dove le monetine erano il pezzo forte e i pochi foglietti di carta navigavano tristemente in un mare di spiccioli.
    Come dare alle cameriere quella miseria di monetine?
    Ero andata in camera e mi ero messa a contarle, diligente. Le contavo e facevo dei mucchietti di uguale valore. Avevo fatto la somma finale e la stavo per trasformare con i miei franchi di carta in qualcosa che almeno all’apparenza avesse un po’ di valore quando la porta della stanza si era aperta di colpo. Le cameriere, tutte insieme, con aria minacciosa mi chiedevano le loro mance.
    Avevo raccolto le monetine che se ne stavano ancora su un lato del tavolo e gliele avevo date. Quando ero scesa in sala i pellegrini, che poi vuol dire turisti (di dame c’ero solo io), rumoreggiavano. Le cameriere infuriate.
   Ma cosa avevano pensato, che mi volessi tenere le loro mance?
   Bé, anche per Lourdes la gavetta ci vuole, e l’anno dopo e l’altro ancora avevo imparato e nessuno mi aveva più mosso un rimprovero.