E’ la storia dei miei nonni, che non ho conosciuto, e dei miei genitori. Ma potrebbe essere la storia di tutti quei giovani che avevano lasciato il loro paese per cercare lavoro in città
Quando i paesi si spopolavano
Anno 1921
Maria e Antonio si erano spaventati vedendolo arrivare. Stavano giocando davanti a casa quando, senza nemmeno salutarli, il padre era entrato in cucina, aveva staccato il fucile dalla parete e poi era uscito, scuro in volto. La mamma era di sopra, a riposare un po'. Da qualche tempo non stava bene e qualche settimana prima avevano addirittura chiamato il dottore che era arrivato e non aveva voluto un soldo. "Quando sarete guarita" aveva detto "piuttosto mangiate qualche uovo, e latte insieme alla polenta". Come se la capra avesse avuto latte anche per lei.
Attraverso l'impiantito di tavole, tra l'una e l'altra fessure che ci poteva passare un dito, Maria aveva visto Silvio poggiare i piedi sulla panca e togliere il fucile dal chiodo. Il fucile era sempre stato lì da quella volta che non aveva pagato la licenza ed era andato a caccia lo stesso e qualcuno aveva fatto la spia ed era arrivato l'appuntato a portargli la multa. Di lepri era tanto che non ne portava più. Poi l'aveva anche visto prendere le cartucce dal barattolo in alto nella credenza. Era uscito senza nemmeno chiederle come stava. Di solito saliva, si sedeva sul materasso con le foglie secche del granturco che scricchiolavano e si chinava a baciarla. "Come state?". Marianna era scesa e sul muro annerito della cucina l'impronta del fucile risaltava più chiara. Maria e Antonio avevano smesso di giocare e la guardavano. Si era messa a correre anche se il dottore le aveva detto di non affaticarsi e lo aveva inseguito. Lo chiamava. L'aveva raggiunto sul sentiero per Tapignola e l'aveva supplicato che le desse il fucile.
Quant'è che lavorava alla carbonaia. Quant'è che non tornava a casa. Era un buon bosco quello che aveva affittato, ci sarebbe uscito del carbone come sapeva lui. Alla notte sveglio per governare il fuoco. Cuoceva che era un piacere. Quella notte doveva governarla Felice e invece che badare alla carbonaia aveva bevuto e si era addormentato anche se tirava vento. Tanto lavoro per niente. Era venuto giù a prendere il fucile per tirargli una schioppettata. "Che gli venisse un cancher". Marianna era senza fiato. Se non c'era la carbonaia non c'era da mangiare. E il padrone del bosco era da pagare uguale. La vigna se n'era andata l'anno prima per la filòssera e l'avevano data per due soldi a Giacomo. E con la "Ghiarata", diciotto are sopra al fosso, ci avevano pagati i debiti l'anno avanti. Se almeno fosse stata bene! Latte e uova. Quale latte? Quello che serviva ai suoi bambini? Non c'era rimasto più niente. E Felice, lassù sul Prampa. Non avrebbe avuto il coraggio di scendere e la Guglia si sarebbe disperata con sei bambini da crescere.
Ormai tutto il paese era di Giacomo. I campi erano tutti suoi e gli altri o facevano i mezzadri o lavoravano a giornata. Di gente che gli curasse le bestie e la terra ne aveva bisogno. Anche Marianna, se appena appena stava meglio, andava ad aiutare dalla mattina alla sera per un sacchetto di mele. Quella di Giacomo era l'unica casa di Calizzo dove si mangiava, le vacche e le galline e i conigli e i campi di frumento e di granturco. E maiali. E buoi per arare e per portare il barroccio. Silvio e Felice erano dei grandi lavoratori. Oltre a fare il carbone aiutavano Giacomo nella campagna, facevano fieno per le sue bestie, raccoglievano il suo granturco. I pantaloni di Silvio, che appendeva vicino al camino quando andava a dormire, si muovevano ancora quando si svegliava. Lavoravano ma non avevano da mangiare abbastanza.
Marianna e Silvio avevano quattro bambini e sarebbero stati sei se ci fossero ancora Giulio e Massimo. Massimo pazienza, l'avevano appena visto ed era morto subito. Marianna aveva pianto, ma poi era nato Antonio. Giulio invece aveva due anni quando si era ammalato. Era bello, coi ricci, e quando il dottore era venuto e aveva detto "fate un sacrificio, comprate una capra e dategli del latte" Silvio aveva comprato la capra e Giulio beveva attaccandosi alle mammelle. Ma era morto lo stesso. Maria era pallidina, non aveva mai fame e Marianna insisteva "mangia, mangia" anche se Mario, Antonio e Ida la guardavano sperando che avanzasse la polenta. A Mario e Antonio e Ida la fame non mancava.
A dieci anni Maria non sorrideva quasi mai. E pensare che a scuola era brava e la maestra l'aveva accontentata e le aveva fatto ripetere la seconda. Un anno in più sui banchi e uno in meno a badare alle vacche di Giacomo. Quando di anni ne aveva tre era arrivata una signora di Reggio e aveva chiesto a Marianna "Volete darmela? vi darei un po' di soldi che vi verrebbero comodi per gli altri" e aveva guardato Ida seduta per terra che la fissava senza capire e Antonio che era in braccio e l'aveva appena allattato. Voleva prendersi Maria. "Con me non le mancherebbe niente e crescerebbe come una signora". Silvio anche aveva provato: "andrebbe a star meglio" ma Marianna aveva guardato la bambina e si era messa a piangere. La signora di Reggio se n'era andata.
1927
Maria aveva ormai sedici anni. Sua mamma era morta dopo essere stata ammalata per tanto. Sua sorella Ida, più grande, già da qualche anno era a servizio in città, prima a Reggio e poi a Genova. Le scriveva "Vieni, che ti trovo da andare a servizio". E così Maria si era decisa, anche perché Silvio, suo padre, le diceva di continuo: "il bisogno è tanto".
Un giorno era partita seduta sul barroccio di Giacomo con i suoi due vestiti in un fagotto e in cima al fagotto una pagnotta della Guglia e tre mele cotte nel forno. Aveva lasciato i fratelli più piccoli con gli occhi spalancati dallo stupore, aveva lasciato il padre e il pugno di case che era il suo paese. Il Prampa e il Cusna avevano i canaloni ancora pieni di neve. Quando a Villa Minozzo era scesa dal barroccio ed era salita sulla corriera sapeva che non li avrebbe più rivisti.
Si sbagliava, sarebbe ritornata, ma dopo tanti anni che avevano cambiato tutto. Stava immobile sul sedile, il fagotto in grembo. Non si accorgeva che i campi diventavano più grandi, gialli di grano, e le colline avevano preso il posto ai monti e la pianura alle colline. Campi enormi, quadrati, gialli, verdi. Gli alberi in fila, intorno ai campi. A Reggio era scesa ed era entrata in stazione. Sua sorella le aveva scritto "Chiedi che ti mettano sul treno per Voghera poi lì ti fai mettere su quello per Genova, sta' attenta vé" e le aveva mandato anche i soldi.
Era così che era arrivata a Genova e l'avevano messa a servizio da una famiglia che le aveva voluto subito bene. A vedere quella ragazzina spaurita, i capelli castani raccolti in una treccia, l'avevano trattata con affetto.
"Che scuole hai fatto?"
"La prima e la seconda, la seconda due volte"
"E' perché sei stata bocciata?"
"No. E' stata la mamma che l'ha chiesto alla maestra"
Le avevano insegnato a fare la cima e il cappun magro e la pasqualina e la zuppa di pesce. La mandavano da Tommaseo a De Ferrari o in via XX settembre al mercato e le davano i soldi del tram. Lei non riusciva a spendere quei soldi perché aveva davanti agli occhi le lettere di suo papà che dicevano sempre "qui il bisogno è tanto" e correva per fare presto come il tram. Tornava, li toglieva di tasca e li metteva nella busta da mandare al paese. Ma poi li toglieva di nuovo e li restituiva ai padroni. Le sembrava di averli rubati.
1935
Non solo Ida e Maria avevano lasciato Calizzo, più tardi erano arrivati a Genova Mario e Antonio e anche i figli della Guglia. E da Villa, dove il barroccio l'aveva lasciata e lei era salita in corriera, erano partiti in tanti per cercare lavoro. A Reggio Emilia qualcuno, a Genova e Milano gli altri. Da tutti i paesini intorno, pugni di case come Calizzo sparsi sui monti dell'Appennino Reggiano, era partita una processione di ragazze che andavano a servizio e di giovani che da "scarpulin", calzolai, o carbonai o mezzadri, diventavano lattonieri, elettricisti, fabbri e muratori. Alla domenica si davano appuntamento sulle gradinate della stazione di Brignole. Da buoni compaesani ricordavano i loro paesi, parlavano degli amici comuni, trascorrevano insieme il pomeriggio di festa.
Maria la mattina andava alla Messa nella chiesa di Nostra Signora del Rimedio insieme ai suoi padroni e dopo aver servito in tavola era libera di uscire. "Stà ben attenta, da brava figgetta" si raccomandava la signora. Le prime volte si era sentita più sola che gli altri giorni perchè sua sorella era andata a fare la stagione in Francia, ma ora che era tornata il giorno di festa poteva passarlo con lei.
Sui gradini della stazione aveva conosciuto Remo, quattro chilometri appena dal suo paese anche se avevano dovuto venire a Genova per incontrarsi. Si era innamorata. Si era fatta più allegra e gli occhi le brillavano. I suoi padroni se n'erano accorti. Avevano scritto al papà di Maria e al prete del paese, avevano voluto conoscerlo. La signora le aveva comprato delle belle pezze di lino e le aveva insegnato a ricamare. "Cuxi o corredo che a çenn-a ghe penso mi" le diceva. Li avevano aiutati. E quando si erano sposati e Maria non era più con loro, i "padroni", per sempre Maria li avrebbe con affetto chiamato così, li invitavano i giorni di festa.
Genova e Milano avevano accolto con rispetto quell'invasione pacifica di ragazze a servizio e di giovani operai. Ragazze e giovani che tanto amavano le loro radici da tornare, appena lo potevano, alle loro case, per ritrovarsi insieme, per curarle, per farle più belle, per farle amare ai figli e ai nipoti. Erano talmente tanti che, anni e anni dopo, all'anagrafe e dovunque si dovesse dichiarare il luogo di nascita, si sentiva questa esclamazione "Anche lei di Villa Minozzo? Ma quanti siete, milioni?" |