i miei racconti

di Franca Caluzzi

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L’episodio racconta uno dei tanti affannosi tentativi fatti nei giorni successivi al 21 gennaio 1944 per salvare la vita a un sacerdote condannato a morte, Don Pasquino Borghi, poi fucilato il 30 gennaio.
 E’ con questo incarico che mio papà era diventato staffetta partigiana tra i monti del suo paese, Villa Minozzo, che come gli altri paesi nel cuore del’Appennino Reggiano, a ridosso della linea gotica, è stato teatro di scontri durissimi.

 

Staffetta partigiana

per salvare Don Pasquino Borghi

 

     "Hanno arrestato don Borghi e lo vogliono fucilare. Te la senti di far qualcosa?".
     Era la mattina del 22 gennaio 1944.
     Pochi mesi che don Pasquino faceva il parroco a Coriano e già aveva l'aureola del santo. Mica che mettesse soggezione, anzi. Quando Remo aveva avuto bisogno lo aveva fatto accomodare in sacrestia e lo aveva fatto sedere, poi si era seduto anche lui e gli aveva detto "Dite". Solo questa parola: "Dite". Non era di quei preti che rispondono "Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, né raccolgono in granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre …". Lui tirava fuori una pagnotta e un sacchetto di granturco e anche qualcos'altro se l'aveva. Si toglieva anche gli abiti di dosso Don Pasquino quando ce n'era il bisogno. Tutti quei ragazzi in divisa. Bisognava togliergliela quella divisa, vestirli borghesi. Persino il panciotto si era tolto una volta, e anche la maglia. Era stato missionario e chi è stato missionario lo rimane per tutta la vita.
     Remo aveva detto di sì con la testa e poi aveva guardato quell'altro.
     "C'è da portare una lettera a Castelnuovo"
     Sarà stato qualcuno ben importante se lo mandavano a Castelnuovo a cercarlo, qualcuno autorevole, aveva pensato Remo. E quante raccomandazioni! Parola d'ordine, muoversi solo al buio e per i campi, mai sulla strada. "Non dite niente a vostra moglie, in casa nessuno deve sapere". Se Maria avesse saputo qualcosa, non parliamo del suo Giulio che aveva sei anni ma era svelto a capir le cose, li avrebbero fatti parlare. A non sapere niente non si poteva parlare.
     Era partito di sera. "Vado alla macchia" aveva detto a Maria. Era sempre così da quando era tornato a Calizzo dopo che era scappato dai tedeschi. Prima perché lo potevano prendere come disertore. Poi, a dicembre, erano passati tre mesi dall'otto settembre, aveva avuto il congedo. Se lo ricordava quando con le gambe che tremavano si era presentato al distretto. E se mi mandano a Salò? Vai tranquillo, gli avevano detto, che chi ha famiglia lo lasciano a casa. E infatti glielo avevano dato il congedo, un cartoncino stampato col suo nome scritto a mano in bella grafia e, in rosso, la parola "Illimitato", timbro e data del 15 dicembre 1943. Solo che i tedeschi non sapevano leggerlo quel pezzo di carta, se ne facevano niente. Per loro quella era zona di partigiani e tutti gli uomini potevano essere partigiani. Brutta vita anche per loro, sempre sul chi va là per paura delle imboscate. E così era più alla macchia che a casa e Maria c'era abituata.
     La lettera da portare a Castelnuovo gliela dovevano dare sotto il ponte della Governara. Doveva andare lì, già col buio, e dire la parola d'ordine. Ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe risposto con un'altra. Era successo però che invece che sotto il ponte aveva visto uno sopra il ponte. Fermo. Al buio. Per un attimo era rimasto che non sapeva se parlare o non parlare. L'altro lo guardava. Sarà ben stato quello della lettera a quell'ora col buio. Fermo e non parlava. Cosa avrebbe dovuto fare Remo? Lasciarlo perdere e andare sotto il ponte? Avrebbe anche dovuto passargli davanti per scendere la scarpata. Aveva pronunciato la parola, non a voce alta ma chiara. L'aveva ripetuta e dentro di sé pregava "rispondi". L'altro sembrava muto, si era portato l'indice alla fronte e se n'era andato scrollando la testa. Solo dopo era uscito un altro tizio dal bosco, l'aveva raggiunto sotto il ponte e gli aveva dato la busta.
     Faceva freddo e la terra era dura di ghiaccio, scricchiolava. "Crac, crac". Erano gli aghi di ghiaccio infilati all'ingiù nella terra che si rompevano. Camminava al buio, da Calizzo a Castelnuovo per sentieri, venticinque chilometri per andare e venticinque per tornare se avesse seguito la strada. Pensava mentre camminava, aveva pensato tutta la notte. Prima gli era tornato in mente quando da ragazzo aveva imparato da calzolaio. Aveva imparato bene e anche soldato aveva cucito degli scarponi. Un paio, bellissimi, li aveva fatti per il suo Giulio e li aveva spediti al paese. Non aveva continuato a fare il calzolaio perché a Genova dove era andato a lavorare prima della guerra avevano bisogno di stagnini. Là nelle case di lusso mettevano già i caloriferi, mentre a Calizzo non c'era neanche l'acqua, neppure una fontana, e l'acqua bisognava prenderla al fosso. Aveva pensato a suo padre che era partito per l'America e c'era rimasto lasciando sola al paese l'Edmea. Pensava al suo Giulio e a come si divertiva nonostante tutto. La scuola c'era e non c'era e lui giocava spensierato sul prato davanti a casa ignaro degli orrori di quella maledetta guerra. E a Maria, che aveva sposato a Genova nel 1936. Quanto le voleva bene! Eppure aveva dovuto raccontarle una bugia. Doveva stare ben attento se voleva salvare don Pasquino e salvarsi lui, per Maria, per Giulio.
     Aveva camminato tutta la notte con quella busta. Gli era sembrato di aver camminato tanto come quando era scappato dai tedeschi. Appena raggiunte le prime case di Castelnuovo aveva cercato la strada e la casa. Prima aveva bussato con le nocche sul legno massiccio. Poi aveva sollevato delicatamente il pomolo in bronzo a forma di pugno e l'aveva lasciato cadere. Si era spaventato a sentire il suono limpido come di campana e l'eco che si spegneva lentamente. Si era guardato attorno con il terrore che tutta la strada si fosse svegliata, si era immaginato scuri che si aprivano e luci che si accendevano. Il silenzio che era seguito l'aveva prima tranquillizzato ma poi l'aveva gettato nel panico. Non c'è nessuno, sono venuto per niente, Don Pasquino lo fucilano. Mentre camminava non gli era venuto in mente. Strano. Mi fucilano anche me. Era allora che una luce nella casa si era accesa e qualcuno si era affacciato. Gli avevano aperto e aveva consegnato la lettera.
     "Sperano in un suo intervento" aveva detto al notabile.
     L'altro aveva promesso.
     Si era sentito di colpo più leggero, il suo dovere l'aveva fatto, ora toccava a quell'altro. "Signore, fa che ci riesca" aveva pregato. Si sentiva leggero ma esausto. Avrebbe voluto sedersi a ridosso del muro e dormire, la testa fra le ginocchia e le braccia intorno alle gambe. Ma il pericolo era dietro ogni angolo e aveva le sembianze di un tedesco che gli intimava: dokumente, dokumente. Anche se non aveva più la lettera. Doveva tornare.
     Aveva paura ed era felice ed era stanco, tutte e tre le cose insieme. Era arrivato a Calizzo stremato e se non avesse conosciuto il suo uomo a Maria sarebbe sembrato ubriaco. Il sole gli illuminava la tuta blu e il sorriso.

 

Un sorriso che sarebbe durato poco, fino alla notizia del processo di Reggio Emilia e della condanna a morte di don Pasquino. Ma allora Remo sperava e Maria che non sapeva gli era andata incontro per abbracciarlo.