3 marzo 2016 - M. PRATI DI CAPENARDO e M. CANDELOZZO da Davagna
Gianni, Franca
Continuano le nostre perlustrazioni sulle alture della Val Bisagno, questa volta sul Monte Candelozzo.
Lasciamo la macchina due chilometri prima di Davagna dove si stacca la strada per Capenardo e inizia il sentiero con le due righe verticali rosse.
E’ una giornata splendida ma ventosa e benedico il pile che ho aggiunto all’ultimo minuto nello zaino, i guanti e il berretto di lana.
Il sentiero attraversa più volte la strada ed è, all’inizio, in buone condizioni. Più avanti, superato l’abitato di Paravagna e oltrepassato un trogolo, è invece invaso da una barriera invalicabile di rovi.
E’ l’occasione per conoscere un giovane che dalla strada, due metri più in alto, ci indica un varco che ci permette di raggiungerlo. Ci racconta che i “passetti”, cioè le scorciatoie che tagliano la strada, non si possono più fare, che ogni tanto dà qualche sforbiciata col decespugliatore anche perché c’è un bambino che da Capenardo viene a scuola a piedi, che proprio nel tratto dove siamo finiti ha spostato i segnavia per farli passare nel varco (non li avevamo visti) e che insieme ad altri ha lavorato ad aggiustare la strada carrozzabile. Se in questi posti non si fa un po’ di volontariato, conclude, chi se ne occupa?
Per il momento abbandoniamo le righe rosse e seguiamo la strada asfaltata. Tanto le ritroveremo a Capenardo.
Il Candelozzo e il monte Prati di Capenardo si guardano, l’uno di fronte all’altro. Il primo a nord, il secondo a sud. Sul monte di Capenardo Gianni non era mai salito e i miei ricordi risalgono a quando ero bambina e col tram che ci lasciava a Prato venivo qui con mamma e papà a fare le scampagnate. Eppure lo vediamo dalla finestra tutti i giorni quando siamo seduti in cucina. E’ una lacuna che dobbiamo colmare.
Il percorso è breve. Grandi pozzanghere allagano la sterrata, nei prati recintati pascolano le mucche limousine e i tori, bestie queste ultime che superano la tonnellata e non mi ci vorrei trovare a tu per tu, affondano nel fango fino agli stinchi.
La cima è occupata dai ripetitori della televisione e dai tralicci dell’alta tensione, in pratica non ci si può mettere piede. Le antenne sono brutte sempre ma qui sono l’emblema della bruttezza. Il panorama invece è notevole, le Alpi Liguri bianche di neve fanno da cornice al mare e qualche nuvoletta innocua galleggia in un cielo tutto azzurro. Non mancano immagini curiose come quella, purtroppo sfocata, che vede i grattacieli di Piazza Dante spuntare al di là della cava della “ex Cementifera” tra il Forte Ratti e il Forte Richelieu.
In pochi minuti torniamo in paese, attraversiamo le poche case e ci ritroviamo sul sentiero che ora ha ben tre segnavia: le due righe verticali rosse, il quadrato pieno rosso che arriva da Prato e il cerchio barrato che prosegue per Canate e che tra poco abbandoneremo.
Il Candelozzo ce l’abbiamo davanti, prativo verso levante, ricoperto dal bosco a occidente. Roveri prima e una fitta chioma di pini più in alto, verde cupo, che in questa stagione contrasta con il pallore dell’erba. Non sembrano nati a caso, sembra che qualcuno, chissà quando, li abbia piantati. Ad ogni modo il Candelozzo mi rimanda all’immagine curiosa di un ragazzo con i capelli rasati e il ciuffo sparato col gel.
Percorriamo la lunga cresta, prima pianeggiante e poi ripida, e ci ritroviamo in vetta, in compagnia di una piccola ma bella croce in legno. Bello il panorama a levante, con l’Aiona bianchissima e placidamente distesa e le Apuane che spuntano appena ma anche da così lontano assomigliano ai denti bianchi e scintillanti di un pescecane. Bello il panorama a sud con il mare all’orizzonte mentre a nord e a ovest ci è interdetto dagli alberi.
Con un simile spettacolo sarebbe bello fermarci a mangiare in vetta ma il vento soffia ed è un vento freddo.
A rompere la monotonia della discesa incontriamo un branco di cavalli proprio sul sentiero per cui, nel dubbio non gradiscano la nostra presenza, ci spostiamo e passiamo più in basso.
A ridosso del paese, appena riparati dal vento, mangiamo qualcosa prima di proseguire la discesa, in parte su strada e in parte su sentiero, che ci riporta alla macchina.
11 chilometri, 660 metri di dislivello, 3 ore e 40 di cammino effettivo.
4-5 febbraio 2016 - Canate da San Martino di Struppa (non riuscita) e da Marsiglia (Davagna)
Gianni, Franca
4 febbraio, da San Cosimo di Struppa (non riuscita)
Due settimane fa avevamo visto il paesino di Canate dall’Alpesisa e ci era rimasta la voglia di visitare questo borgo abbandonato da decenni.
Abbandonato del tutto no perché sappiamo che ci vive una persona. E che ha galline, oche e capre. Ma dall’Alpesisa non avevamo visto nessun camino fumare e così avevamo pensato che quell’unico abitante se ne fosse andato.
Dobbiamo andare a vedere, avevo detto a Gianni.
Ci proviamo oggi da San Martino di Struppa. Lasciamo la macchina a San Cosimo con l’idea di seguire il cerchio rosso barrato che da San Martino va a Canate e prosegue per Capenardo, scendere a Cavassolo e tornare a San Cosimo.
Le notizie che avevamo raccolto sul percorso erano pressoché nulle, diciamo che lo abbiamo preso sottogamba e pensavamo di andare e tornare in breve tempo.
Pieni di entusiasmo partiamo alle 9,40 (tardi) come dovessimo fare una passeggiata. La giornata è splendida e mite. Da San Cosimo risaliamo velocemente a San Martino dove troviamo il cerchio rosso barrato che si affianca ai due rombi rossi per l’Alpesisa e li abbandona più avanti per scendere e aggirare il Monte Piano di Croce.
Subito dopo il bivio col sentiero per l’Alpesisa, appena inizia il tratto in discesa, un albero crollato ostruisce il sentiero. Un fitto intreccio di liane lo avvolge. Coricati a terra strisciamo sotto e con qualche graffio siamo dall’altra parte.
Il primo tratto a mezza costa è bello e incoraggiante. Dopo le cose si complicano (per noi che abbiamo poco tempo e pensavamo a un giro veloce) perché il sentiero, che segue le infinite curve del monte con alcuni tratti scoscesi e anche esposti in cui c’è da prestare attenzione, si allunga tanto che Canate è sempre lì davanti e non si avvicina di un millimetro. E non sembra che Capenardo dove dovremmo arrivare sia a un tiro di schioppo dal paese …
E così, dopo un ultimo scatto ravvicinato, decidiamo di tornare indietro.
Peccato.
Sulla via del ritorno, superate le case Tigui e in prossimità di San Martino, ci raggiunge veloce un escursionista di Valenza. E’ partito da Cavassolo, ha fatto la salita dei 1100 gradini, ha visitato Canate e conosciuto il suo abitante (sono contenta di sapere che è sempre là, vuol dire che sta bene e ci sta bene) ed ora va verso Struppa. Ci riconosce per quelli del blog. Quando arriviamo dall’albero crollato tira fuori un lungo coltello a serramanico e in un attimo taglia l’intreccio di liane e di rovi permettendoci di passare comodamente carponi attraverso il varco. Io non ho nemmeno un coltellino per sbucciare la mela e, sinceramente ammirata, dimentico a terra il mio zaino costringendolo a portarmelo…
5 febbraio, da Marsiglia (Davagna)
Canate mi è rimasto qui. Ci dobbiamo andare: proveremo da Marsiglia, il percorso più agevole, almeno sulla carta.
Il tempo è ancora splendido, con tanto sole, cielo limpido e niente vento. Non sembra davvero che sia febbraio.
Sono le 13,30 (tardi anche oggi ma questa mattina non potevamo) quando partiamo da Marsiglia: le case in ordine dai colori vivaci che digradano sulla collina, la chiesa, la piazzetta col nome altisonante – Piazza della Vittoria – e una targa che recita “Nucleo storico-rurale Secolo XII”. Siamo a quota 548. Indico le quote perché il sentiero sale, scende, risale.
Attraversiamo l’abitato, scendiamo fino a un bivio (una quindicina di metri il dislivello), prendiamo il sentiero a destra (privo di segnavia)che inizia con alcuni gradini in cemento e risaliamo fino a un colle che sfiora i 600 metri.
La mulattiera che scende era importante. Tutta in pietre, a oggi ben conservata, si snoda tra un bel bosco di castagni. In ombra, rivestita dalle foglie che sono cadute a terra, è punteggiata qua e là da ciuffetti di primule e di crochi che le regalano briciole di colore. In fondo c’è un ponte in legno, sotto scorre il Rio Canate e in alto, dalla Costa d'Arvigo, precipita una cascata.
Si tratta dell'acqua che in alcune occasioni viene fatta tracimare da un grande serbatoio che, tramite una condotta forzata, alimenta la centrale di Canate. E’ interessante sapere – almeno per me che sono andata a chiedere a un tecnico di Genova Acque - che l’acqua che arriva a questo serbatoio proviene dall’invaso del Brugneto tramite un condotto di parecchi chilometri quasi tutto in galleria e che, dopo essere servita a produrre energia elettrica alla centrale, arriva all’impianto di potabilizzazione di Prato e ai nostri rubinetti. Un cartello informa di prestare attenzione perché potrebbero arrivare onde di piena. Siamo alla quota più bassa che è di 375 m.
Inizia ora la salita verso Canate e dopo poco intravvediamo nel bosco sottostante due case di Scandolaro, abbandonato come Canate da tanti anni. La mulattiera è perfettamente in ordine e risale il versante più soleggiato. Erba verdissima ai margini, muri a secco oppure banchi di roccia sulla nostra destra mentre sulla sinistra il fianco del monte (Monte Lago est) scende verso il Rio Canate. E’ davvero un bel sentiero.
Incontriamo qualche palo della luce ormai inutile. Una volta, sembra strano, c’era l’illuminazione.
A una svolta del monte improvviso mi appare Canate. Un nido d’aquila aggrappato alle pendici sud del Monte Lago. Per me è stata davvero un’apparizione. Mi immaginavo di arrivarci da sotto, di vedere una casa prima e poi un’altra. Invece è lì, tutto in fila, come volesse mostrarsi.
Da qualche parte avevo letto che da Marsiglia a Canate ci vuole un’ora. Noi ci abbiamo messo un’ora e venti, sia all’andata che al ritorno.
Entriamo in paese, incontriamo le oche e le galline. Ci sono panni appesi a un balcone. Un trogolo getta acqua fresca.
Poi, da una fascia in alto, qualcuno ci scorge e ci invita a salire e quando vede che tentenniamo scende veloce e ci viene incontro. “Volete un caffè?” “Un the, vi faccio un the?”. Eppure ha fretta perché la capra ha avuto i piccoli e hanno bisogno di aiuto. I “piccini”, li chiama così.
Nello zaino ho qualche vettovaglia che lui non può comperare e che ho portato apposta. Accetta volentieri e ci invita in casa e vuole offrirmi le uova d’oca, di quelle magnifiche oche che razzolano sul sentiero. Ne prendo uno, me lo fascia e insieme l’avvolgiamo nella mia felpa perché non si rompa. “Avete visto il ronfò?” ma noi non siamo abbastanza pronti a rispondergli che è proprio un bel ronfò. La sua casa forse era la più bella del borgo.
Le case di Canate, ormai distrutte, conservano ancora qualcosa dell’insolito lusso che potevano vantare. Il ronfò in ceramica decorata, i balconi con le ringhiere in ferro battuto a riccioli e torciglioni, e qualcuna, come questa, con resti di intonaco colorato.
Leggo che è un paese di origine medievale, risale al XII secolo, nel 1930 ci hanno portato la luce e oltre all’illuminazione pubblica ogni casa aveva un suo impianto, che nel 1950 aveva ancora un centinaio di abitanti.
Francesco, così si chiama questo signore così gentile, ancora giovane, con uno sguardo limpido che ispira simpatia, ci invita a tornare con più calma. Lui oggi deve andare dai piccini, noi dobbiamo tornare prima che venga buio.
A ritroso scendiamo fino al ponte e risaliamo al colle. Nel cielo che prima era azzurro si addensano le nuvole ma Marsiglia è splendidamente illuminata dall’ultimo sole. In una manciata di minuti scende la sera. Sono le 17.
La promessa è di tornarci con più calma, fare altre foto perché mi sono accorta che non ho visto tutte le case, chiacchierare con Francesco e cercare di capire, senza chiederglielo, come fa a vivere senza l’energia elettrica, senza i negozi, senza tutto, ed essere così sereno. Nello zaino ho il suo uovo di oca.
7 i chilometri percorsi oggi, 500 metri il dislivello, 2 ore e 50 il cammino effettivo.
21 gennaio 2016 - M. ALPESISA da San Cosimo di Struppa
Gianni, Franca
Lasciamo la macchina in via dei Filtri, che raggiungiamo da via Trossarelli, proprio dove parte la crosa di San Cosimo di Struppa. Sono le 9 e 10 ed è una bellissima giornata con tanto sole e tanto freddo nelle zone in ombra.
Abbiamo in mente di fare l’Alpesisa, che domina la Valbisagno con la sua elegante forma trapeizodale e per pochi metri non raggiunge quota 1000. Tenendo conto che partiamo da 150 e che lo sviluppo è molto breve ha una pendenza niente male.
La crosa (ma si dovrebbe dire creuza) risale la collina di Struppa tagliando i tornanti di via Trossarelli e a seconda delle località che incontra cambia nome: salita San Cosimo per il tratto che sbuca presso la chiesa della borgata omonima e poi salita San Martino di Struppa . A San Martino c’è il capolinea dell’autobus, la chiesa, una manciata di case che si affacciano sulla vallata e altre crose e stradine che, salendo, si perdono nel bosco.
Al bivio poco sopra la piazza della chiesa scegliamo di trascurare per il momento il segnavia dei due rombi rossi che portano direttamente all’Alpesisa e di andare a sinistra in salita Gave, dove c’è la croce rossa che va alla Gola di Sisa e a Tre Fontane. Vogliamo infatti fare un anello e i due rombi rossi, sicuramente più panoramici, li seguiremo in discesa.
Salita Gave diventa presto un sentiero, attraversa il bosco e sbuca in un ripiano erboso dove, accanto al serbatoio dell’acquedotto, c’è una fontanella.
Siamo ad un crocevia e la croce rossa sceglie una strada in cemento costruita, credo, a servizio dell’allevamento di bovini della cooperativa Alpe Sisa. Larga, comoda, con pendenza regolare, ha l’unico difetto di essere poco panoramica e in questa stagione in ombra.
Più su c’è un cancello e un cartello avvisa: animali al pascoli con tori. Da qui alla Gola di Sisa Gianni non spiccica parola, in ascolto del latrare dei presunti cani maremmani a difesa della mandria. In realtà non incontriamo nessuna bestia e arriviamo tranquilli alla Gola di Sisa (ore 11).
La terra è colorata di rosso e prende il nome, come in altri posti, di Terre Rosse.
Abbiamo abbandonato la croce rossa, che diventa gialla e prosegue per Tre Fontane, per seguire l’Alta Via in direzione del Candelozzo. Al di là del valico, in basso e nell’ombra, c’è la diga del lago Val Noci.
Ripidissimo questo tratto di Alta Via e altrettanto ripida la deviazione verso destra che ci accompagna in vetta. Una ragazza in scarpette da corsa scende saltellando. “E’ bello lassù”, dice, e si riferisce al tempo e al sole che illumina la cima.
Siamo in vetta che sta per scoccare il mezzogiorno, accanto alla bella croce ricurva che hanno costruito i tranvieri. Il panorama è notevole nonostante la foschia a grande distanza. Solo la cima dell’Aiona sembra innevata. Per il resto neve zero.
Di fronte a noi in direzione nord è ben visibile il sentiero dell’Alta Via che passa alle pendici del Monte Lago e poi a quelle del Candelozzo prima di arrivare, a fine tappa, al Passo della Scoffera. Verso sud il ripido crinale che scende verso la Val Bisagno e che faremo in discesa seguendo il segnavia dei due rombi rossi. In basso le case di Aggio, un po’ più in alto quelle di Creto e, dietro, il Forte Diamante. Il mare si perde nella foschia.
Quindici minuti per girare lo sguardo intorno e per scattare qualche foto. Per mangiare scenderemo più in basso, dove il sentiero spiana un po’ prima di tuffarsi di nuovo a picco sulla vallata.
Scendiamo lungo la dorsale facendo un po’ di attenzione a dove mettiamo i piedi. In basso, sulla nostra sinistra, c’è il paese di Canate che non ho mai visto e che una volta o l’altra vorrei visitare. Magari salendo dalla strada dei 1100 gradini che parte da Cavassolo e che non ho idea in quale stato di conservazione si trovi.
Guardo le case alla ricerca di un filo di fumo perché sapevo che Canate aveva ancora un residente. Ma i camini sono tutti spenti e non posso credere che a gennaio, con il freddo che fa nonostante la splendida giornata, non ci sia la stufa accesa per quel signore gentile che a tutti offre il caffè.
Ci fermiamo a mangiare proprio di fronte a questo antico borgo, addirittura di origine medievale, abbandonato verso la metà del secolo scorso dopo la costruzione della strada che si è fermata a Marsiglia. La dorsale si allarga e diventa prateria, si sentono i muggiti delle mucche che ora sono lontane ma hanno lasciato da poco il segno del loro passaggio. A dire il vero, sul sentiero, non ci sono solo i segni delle mucche ma anche quelli che forse sono del lupo, “fatte” di pelo attorcigliato, anche queste molto recenti.
Il bel profilo regolare dell’Alpesisa si allontana alle nostre spalle, il sentiero passa ai piedi di un alto pilone per la linea elettrica, ben visibile dalla vallata, e ci fa scoprire un minuscolo e curioso riparo nel bosco. Di forma circolare, in pietra e di buona fattura, ha solo il tetto in cemento, un tetto a cupola fatto, immagino, per consolidare la struttura.
Poi il sentiero diventa di nuovo molto ripido perché segue la linea retta del gasdotto ed è questo il tratto più brutto, o meno bello se vogliamo, del percorso.
Una casa antica, e un’altra col tetto sfondato, ci annunciano che siamo vicini al paese. E infatti poco dopo sbuchiamo in via Borgano e poi a San Martino chiudendo l’anello.
Ci resta da percorrere la parte finale del percorso e un po’ per crose e un po’ su asfalto per paura di scivolare alle tre e un quarto siamo di ritorno alla macchina. Un signore ci guarda con nostalgia e un po’ di invidia. “Siete stati lassù? C’è una vaccheria sull’Alpesisa ma non trovano gente per lavorarci. Io sono di qua, sono del Bano, ma a camminare non ci riesco più”. E allarga le braccia.
Undici i chilometri percorsi, ottocentosettanta metri il dislivello, quattro ore e trenta il cammino effettivo. Quello che avanza è dovuto alle mie soste, numerosissime in queste escursioni fuori porta ricche di nomi da annotare per il mio navigatore (e sempre deprecate da Gianni che si volta ad ogni istante a vedere se sono rimasta indietro …)
12 dicembre 2013 – M. ALPESISA dal Colle di Creto
Paolo, Dino, Lodovico, Bruno, Cesare, Sara, Silvestro, Paola, Renato, Giancarlo, Giovanni, Corrado, Patrizia, Mariuccia, Gianni, Franca
Il Natale è prossimo e oggi è la giornata del pranzo natalizio: per il gruppo il bell’itinerario S. Siro di Struppa-Alpesisa-Molassana , per noi una mini gita da Creto all’Alpesisa e ritorno. Ci vedremo con gli amici sul monte e scenderemo insieme per concludere con i festeggiamenti. Il tempo è buono, cielo azzurro e nuvolaglia sul mare, temperatura mite.
A Creto nasce un problema, non c’è una piazza e non esistono posteggi. Sulla strada, davanti alle case, ci sono tante belle strisce gialle (proprietà privata?). Fatto sta che girovaghiamo un po’ e poi lasciamo la macchina nel parcheggio di un bar, deserto per l’ora e per la giornata feriale. Alle 9 siamo pronti a partire.
L’itinerario è lineare e per buona parte si sviluppa sull’Alta Via: un tratto di stradina asfaltata tra i pascoli, due mucche che nonostante la stagione non si sono ritirate al calduccio delle stalle e ci osservano incuriosite, poi il bosco, rado, sul dorso dell’ampio crinale.
Cinquanta minuti dopo siamo alla bella radura della Gola di Sisa dove i prati cintati per le bestie sono rasati alla perfezione e, a dicembre, ancora verdeggianti. La terra in questo tratto è rossa. per la presenza di argilla e calcare.
Il sentiero rientra nel bosco, tra poco lasceremo l’Alta Via per risalire le ripide e scivolose pendici nord-ovest dell’Alpesisa.
Quando sbuchiamo in vetta (ore 10,40) i nostri amici sono già lì, accanto alla croce fatta trent’anni fa dai tranvieri con le balestre di un tram. Mancano solo Patrizia e Mariuccia che si sono tenute più basse verso la Gola di Sisa. La cima è panoramica, la visibilità così e così.
A mezzogiorno ci aspettano all’agriturismo, scendiamo. Per noi è lo stesso percorso dell’andata, per i nostri amici saliti da S. Martino di Struppa è un tratto dell’ampio semicerchio che concluderanno a Molassana. In basso c’è l’invaso artificiale del lago Val Noci, connesso alla rete idrica della città insieme al cugino maggiore (sette o otto volte tanto) lago del Brugneto. Sgranati lungo il percorso ritroviamo Mariuccia che mi scatta una foto (non guardare l’obiettivo, guarda da un’altra parte! e io che non avevo mai pensato a questi trucchetti …) e Patrizia. E poi tutti insieme a Creto dove, a tavola, rispettiamo la tradizione con il pranzo di Natale accompagnato da un cicaleccio festoso e dalle poesie in genovese di Giovanni.
Buon Natale!
30 novembre 2012 - M. ALPESISA da Molassana
Sara, Lodovico, Renato, Gianni, Franca
In questo periodo di tempo perturbato, quando si vuole andare in gita si rimane un po' perplessi.
Quando ci incontriamo al parcheggio di Molassana pioviggina e, con il buio pesto che c'è, non abbiamo assolutamente le idee chiare. Così, alle 7,30, prendiamo la crosa che sale al vecchio Acquedotto ... tanto per cominciare.
Superato l'imponente ponte-sifone sul Rio Torbido (maestoso esempio di architettura del 1600), imbocchiamo salita Gambonia e, poco sopra S. Cosimo di Struppa, facciamo colazione in una piccola accogliente osteria.
Passiamo davanti alla chiesa di S. Martino di Struppa quando, alle 9,15, l'orologio del campanile batte il primo quarto. Il segnavia dei due rombi rossi supera le ultime case, si inoltra nel bosco, poi il sentiero si fa più ripido e segue la dorsale sud dell'Alpesisa fino a raggiungere i bei pascoli ancora verdissimi.
L'ultima ripida erta finale ci conduce alla croce di vetta dell'Alpesisa (ore 11) dove un gelido vento ci spinge a scendere velocemente lungo il boscoso crinale nord-ovest, ripido e scivoloso per il fango, fino a incontrare il pianeggiante percorso dell'Alta Via.
Alle 11,50 siamo alla Gola di Sisa e il vento di nord soffia impetuoso.
Come al solito sono il fanalino di coda, ultima a superare la recinzione per le bestie. Quando mi ritrovo davanti alla staccionata una folata più forte spinge il cancelletto che cigola sui cardini e si apre per lasciarmi passare. Poi, trattenuto dalle molle, si richiude dolcemente.
La nostra camminata prosegue finchè, trovato un posto più riparato, facciamo una pausa. A scanso di ritrovarmi con le dita ghiacciate tengo i guanti anche per mangiare e ascolto Lodovico che ci racconta una delle sue tante avventure.
Il cielo si è schiarito e la visibilità è discreta. Dobbiamo raggiungere Creto.
Attraversata la strada provinciale a arrivati al bivio nei pressi dell'ex canile, abbandoniamo i segni dell'Alta Via e prendiamo il sentiero che scende nella Val Bisagno, che dapprima è ripido e tortuoso e diventa poi una comoda sterrata che passa sopra l'acquedotto di Val Noci.
Alle 15 raggiungiamo la Crociera di Pino e, poco più tardi, la Baita Diamante. Da qui una veloce discesa, ora su asfalto ora su crose, ci porta alla Chiesa di Trensasco dove, seduti sulle panchine, facciamo merenda e ... chiaccheriamo.
Quando, come oggi, la gita ci lascia il fiato ritroviamo il piacere del dialogo e le parole scorrono fluide come i ruscelli che scendono tra le pieghe del monte.
Siamo alla Presa di Trensasco e di nuovo sull'antico Acquedotto. Pino Sottano, il campo di calcio di Cà dei Rissi, la mattonata che scende al torrente Geirato, Molassana sono le ultime tappe di un giro che si è fatto molto lungo e che, alla fine, supererà i 26 chilometri.